Trascrizioni-RIFLESSIONI SUL VANGELO di Don Lindo Contoli Parrocchia di San Lorenzo

RIFLESSIONI SUL VANGELO
di Don Lindo Contoli
Parrocchia di San Lorenzo

Trascrizioni

Vangelo: Giovanni 6, 60-69

Data: domenica 27.08.2000

Di fronte alle parole di Gesù molti dei suoi discepoli si allontanano e non vanno più con lui. I dodici continuano ad andare con lui. Qual è il motivo per cui molti non andavano più con lui? Notate che si ha una crisi tra i fedeli di Gesù Cristo, dove molti se ne vanno. Il motivo ci viene rivelato direttamente da Pietro il quale dice: “Tu hai parole di vita eterna”, “dove vuoi che andiamo”. Fra i discepoli, quindi c’era chi aveva un atteggiamento e chi un altro. I discepoli che se ne vanno hanno riconosciuto che ciò che Gesù diceva e ciò che Gesù faceva rispondeva alle esigenze della loro umanità, come desiderio di verità, come desiderio di vedere in questo mondo una rete di rapporti che siano secondo verità e sincerità, essi, però, si fermano a ciò che ricevono, si fermano nel momento in cui Gesù comunica loro qualcosa che non capiscono. Nel momento in cui vengono investiti da un linguaggio duro, non gestibile immediatamente, da un linguaggio che non rientra immediatamente nella loro mentalità, così da essere usufruito immediatamente, da essere “mangiato” immediatamente, da essere gestito immediatamente nella loro esistenza, sono come quando uno è cliente di un negozio e il negozio non ti tratta bene e tu prendi su e te ne vai da un altro. L’accento è posto, per così dire, su ciò che Gesù trasmette; però “lui resta lui e io resto io”. Diventeranno undici perché uno lo tradirà, lo tradirà secondo la mentalità del trarre il massimo di profitto dalla persona di Gesù, massimo di profitto che poi uno può auto gestirsi come meglio gli sembra nella sua vita. Pietro, invece, attraverso i gesti di Gesù, attraverso il comportamento di Gesù, attraverso lo sguardo di chi vede la verità della persona, ha accolto ciò che Gesù dice e ciò che Gesù fa come via alla maggiore unità di vita, ad una maggiore armonia con la persona di Gesù Cristo. Le parole che Gesù dice, in fondo, sono l’auto espressione, sono il racconto che di sé fa Gesù Cristo. Pietro prende le parole di Gesù, i gesti di Gesù, i  comportamenti di Gesù, come comunicazione di se stesso a lui e quindi tutto ciò che ha visto, tutto ciò che ha ricevuto, tutto ciò che ha dato come fatica, come impegno e stata via e potremmo dire anche metodo all’incontro con Gesù Cristo, all’affezione per lui. La conclusione è: “ciò che ho vissuto”, è il ragionamento di Pietro, “ciò che finora ho sperimentato è sufficiente per poter proseguire, anche quando non capisco, perché ciò che ho vissuto è così vero che non posso negarlo, perché se negassi l’esperienza che ho vissuto con Gesù Cristo allora non dovrei più credere a niente e a nessuno”. Per cui Pietro e gli altri undici rimangono con Gesù Cristo anche se non capiscono quello che Gesù dice, perché ciò che hanno sperimentato, ciò che hanno vissuto, corrispondeva alla domanda fondamentale di felicità, di gioia, di verità della loro vita. Ciò che è stato sperimentato come vero è fondamento per accogliere e aprirsi all’accoglienza anche di un di più. D’altra parte Dio è sempre di più di quello che noi possiamo pensare, è la realtà che è sempre di più, non è racchiudibile all’interno dei nostri pensieri, dei nostri concetti, perché altrimenti vorrebbe dire che noi siamo in grado di accogliere in noi l’infinita presenza di Dio, e noi siamo solo delle creature. Primariamente Dio è sempre di più di quello che noi possiamo pensare. Se si tratta di Dio, se si tratta di una realtà che è all’origine e destino di tutto quanto, allora noi capiamo come necessariamente Dio debba essere un di più di quello che noi possiamo programmare o pensare, perché, altrimenti, vorrebbe dire che seguiamo un altro che è come noi. Quindi Dio deve essere di più di quello che noi riusciamo a capire, di più di quello che noi riusciamo a fare. L’adesione di Pietro è l’adesione di chi segue Gesù Cristo, perché ha capito che Gesù Cristo è di più di quello che lui potrebbe pensare. In fondo questa è la fede. La fede primariamente consiste nel seguire qualcuno che ha in sé la capacità di rispondere alle domande dell’uomo, e nello stesso tempo l’uomo capisce che è ragionevole fidarsi di qualcuno, è ragionevole quindi credere a qualcuno. L’atto di fede del cristiano ha un fondamento di ragionevolezza, perché a tutto quello che posso capire, a tutto ciò che può capire la mia intelligenza, c’è risposta, però avendo a che fare con Dio c’è un di più e quindi la fede interviene come capacità dell’uomo di aderire a un di più e il di più che viene proposto non è semplicemente nell’ordine delle idee, ma il di più si ha nell’accoglienza dell’affidarsi, nell’accogliere e nell’affidarsi alla persona che Dio stesso ha mandato in mezzo agli uomini come parola di verità, Gesù Cristo. Gesù Cristo, quindi è la parola di verità che Dio dice agli uomini affinché gli uomini riconoscano che esiste realmente Dio e questo Dio illumina e sostiene tutta l’esistenza dell’uomo. È molto importante questo, perché periodicamente nella Chiesa si confonde la fede con il senso religioso. Il senso religioso, che viene selvaggiamente gestito dalle diverse sette religiose, specialmente in questo nostro tempo, è primariamente la domanda dell’uomo per cogliere il significato della vita, il destino. Questo è il senso religioso. Il senso religioso è la domanda ragionevole che l’uomo pone a se stesso sul proprio destino. La fede è l’accoglienza da parte dell’uomo della risposta di Dio, notate. Il senso religioso è domanda, la fede è accoglienza della risposta. Nel cristianesimo quindi si ha che il fondamento religioso è la persona di Gesù Cristo ed è per questo che nella fede cristiana c’è una unità fra il capire e l’amare, proprio perché, in fondo, amare non è altro che la forma di conoscenza di una persona, perché una persona non si può studiare semplicemente come un tu reale, come se fosse una cosa. Certo che in certa misura che il metodo scientifico si può applicare anche alla persona, ma il tu col quale vivi richiede un approccio, una conoscenza, che è di tipo assolutamente diverso ed è il tipo di conoscenza che si ha nel cristianesimo con il volto di Dio, che è Gesù Cristo. Questo è importante, perché tutte le volte in cui noi veniamo sollecitati ad una maggiore adesione a Gesù Cristo occorre che, primariamente, sia fissato bene l’obiettivo, altrimenti noi chiediamo degli strumenti per raggiungere ciò che non conosciamo. In fondo ubbidire a Dio significa avere la risposta alla domanda: “come si fa?”. Servire Dio vuol dire accogliere l’indicazione che Dio ti da per raggiungere ciò che tu ami e ciò che tu desideri. Nell’orizzonte, quindi, della religione cristiana il servizio non è una dipendenza da un altro che si impone su di me, ma il seguire un altro che mi aiuta a realizzare ciò che desidero fare. Questo è molto importante averlo presente, perché la educazione cristiana primariamente consiste nel risveglio del desiderio, nel risveglio dell’amore, perché se manca il desiderio e manca l’amore è inutile che arrivino delle indicazioni, perché “io non voglio andare da nessuna parte”; è inutile che uno mi dica che per andare a Firenze si fa così e devi fare così se io non voglio andarci. Occorre che noi accogliamo prima di tutto il desiderio che il Signore ci mette nel cuore e la realtà da amare, perché solo in questo modo il realizzare ciò che il nostro cuore desidera non è fatica, ma è continua letizia, perché stiamo diventando, giorno dopo giorno, quella verità profonda che il Signore ci ha dato di intravedere.

 

Vangelo: Giovanni 6, 51-58

Data: domenica 20.08.2000

È impresso nella nostra memoria ciò che abbiamo visto ieri sera nell’incontro dei giovani con il Papa a Roma, indubbiamente sono andati a motivo del Giubileo, però il Giubileo si può celebrare anche in tantissimi altri modi. Noi abbiamo qui, a due passi, il Piratello, ogni volta che una persona si ferma può celebrare il Giubileo e quindi avere l’indulgenza plenaria. Così chi va a visitare un persona anziana, una persona malata, poco tempo che rimanga, anche solo un oretta, acquista l’indulgenza plenaria. Il fatto sottolinea un aspetto che è tipico del cattolicesimo, del cristianesimo, cioè che la Grazia del Signore, la presenza del Signore, si ha attraverso una forma corporea, attraverso una realtà sensibile e questo è un po’ lontano dal nostro modo di pensare. Siamo lontani, nonostante tanti anni di cristianesimo, come lo erano gli ebrei di fronte al discorso di Gesù. Nella prima lettura abbiamo ascoltato come, già alcuni secoli prima di Cristo, la Sapienza si presenta come una signora che prepara un banchetto al quale invita tutti quanti. Il passaggio del “nutrimento della mente”, che è sotto la forma dell’immagine di nutrimento del corpo è molto facile. Del resto, anche nel linguaggio comune, quando una persona, al termine di una discussione, che vuole che si interrompa, dice: “o mangiare questa minestra o saltare questa finestra”; di minestra non c’è niente, però si intende bene quel che si vuol dire. Quando però Gesù fa il discorso essi capiscono che non si tratta di un’immagine. Non si tratta quindi di prendere semplicemente le idee e l’insegnamento di Gesù, ma Gesù dice che, come è presente fisicamente come figlio di Giuseppe e di Maria, egli continuerà ad essere ugualmente presente con la stessa realtà e gli uomini dovranno avere un incontro con lui. Per cui non si tratta solo di meditare e di ascoltare il messaggio di Mosè, Vecchio Testamento, oppure il messaggio di Gesù Cristo, ma si tratta realmente di avere un incontro con una realtà che è al di fuori di te, la tua salvezza non sta nei tuoi pensieri, non sta nei tuoi sentimenti, non sta nei tuoi propositi, ma in una realtà che tu devi incontrare, devi seguire. Questo è il messaggio immediato, che, in fondo, si esprime con la parola Sacramento. Di per sé la salvezza cristiana è una salvezza che arriva attraverso una forma fisica assunta dal Signore perché tu possa partecipare dell’avvenimento di salvezza. Qui sta la difficoltà per ogni uomo, nella misura in cui riflette, pensa e sente, che indubbiamente la vita che ha, gli appartiene e quindi deve gestirla con responsabilità e che l’intelligenza e la libertà non sono da mettere da parte, ma non sono sufficienti. Non sono sufficienti come non è sufficiente che l’uomo che cerca la verità, la verità cristiana, legga il Vangelo, perché noi siamo molto abili con la nostra intelligenza a cogliere ciò che in qualche modo conferma quello che già pensiamo. Noi siamo molto facilmente convincibili sulle cose di cui siamo già convinti, il problema diventa il superamento, in qualche modo, del nostro pregiudizio mentale. Il seguire un altro è la via necessaria affinché noi usciamo dalla nostra solitudine, usciamo dal corto circuito di noi stessi, usciamo anche dal corto circuito della nostra apparente libertà, perché anche la libertà ha bisogno di essere liberata, attraverso un incontro con una oggettività, con qualcosa che ti sta di fronte. Del resto riflettete: “che cosa sarebbe la nostra religiosità se venisse meno la messa della domenica con la consacrazione, la comunione e la presenza fisica di Gesù Cristo?”. Ci sarebbe il pericolo, come è accaduto in molte sette protestanti, di trasformare la Chiesa in un circolo culturale, in un circolo dove le persone si ritrovano insieme perché c’è una certa simpatia o c’è una certa convergenza di modo di pensare, ma viene completamente sbriciolato il senso del sacramento, come realtà corporea che ha in se stesso la presenza di Gesù Cristo. Quando Paolo dice: “noi ci troviamo insieme per fare l’eucarestia e l’eucarestia è ciò che costruisce la comunità”, esiste un passaggio fra la realtà corporea di Cristo, sotto le forme del pane e del vino e la realtà della presenza di Cristo attraverso il volto delle persone. È un aspetto che noi dobbiamo avere presente, perché nell’ambito della Chiesa è la realtà di Gesù Cristo che ci raggiunge attraverso qualsiasi forma di sacramento. Il fatto che nella Chiesa ci sia la gerarchia vuol dire che Cristo ha istituito un sacramento, cioè una forma di presenza, che noi dobbiamo tenere in considerazione. Per il fatto che Cristo ha istituito l’eucarestia, occorre che noi avvicinandoci a Gesù Cristo siamo continuamente disposti ad accogliere da lui quel supplemento di vita in modo tale che la nostra vita non sia più solo la nostra vita, ma diventa la vita con lui. Dice infatti Gesù: “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui” notate questa simbiosi, questa unità di forma di esistenza, che è realmente dovuta alla potenza del Signore, non perché io con la mia mente riesca, attraverso uno sforzo di buona volontà, a far corrispondere il mio agire con i gesti di Gesù Cristo, é Gesù stesso che in qualche modo immette in noi, attraverso una trasfusione il suo sangue, la sua vita, la sua vitalità, il suo Spirito nella nostra esistenza. Chiediamo al Signore di darci questa docilità di fronte alla concretezza del sacramento, in modo tale che ogni volta in cui noi ci accostiamo al sacramento e riceviamo il pane e il vino, noi sappiamo realmente di incontrare quello stesso Gesù Cristo dell’origine, non c’è nessuna differenza con il Gesù nato da Maria, che ha ricevuto il sangue e la carne da Maria; ciò che continua nel tempo è uguale, è la stessa cosa dell’origine. Occorre quindi che noi abbiamo questa gratitudine e questa domanda, affinché il Signore accresca la nostra fede così che possiamo sperimentare, sempre di più, con maggior docilità, il farsi presente nella nostra esistenza di Gesù Cristo, sotto forma del pane e del vino e sotto la forma di Colui che guida la nostra Chiesa nella verità e nella carità.

Vangelo: Luca 1, 39-56
Data: 15.08.2000

   Oggi celebriamo un avvenimento particolare del Signore, che è l’assunzione della Beata Vergine Maria in Cielo. L’ascensione è il movimento di Gesù che va al Cielo per forza propria, nell’assunzione è Maria che viene portata nel Cielo. Fin dalla antichità gli uomini hanno visto che c’è una grande differenza fra ciò che sta sopra di noi, il cielo, e la terra e considerando che qualcuno presiede gli avvenimenti che accadono sulla terra, hanno posto Dio, la Divinità, su in alto nel cielo, così “vede” tutto ciò che accade sulla terra; ma se c’è una divisione assoluta è questa: che il cielo è il cielo e la terra è la terra, non c’è nessuna combinazione, nessuna possibilità di mescolare una realtà con l’altra. L’uomo è fondamentalmente il figlio della terra e così il destino dell’uomo è di ritornare nel grembo della madre terra e così, talora, la sepoltura viene fatta in terra, come è il bambino nel grembo della madre. Il considerare l’uomo con nessuna risultanza, però, è contrario alla ragione stessa, perché è nella necessità della ragione il chiedere il perché, il chiedere lo scopo. È normale che un uomo vedendo che si compie qualcosa, chieda: “che cosa fate?”, cioè: “qual è lo scopo, il motivo, il risultato che vi proponete di raggiungere?”. Se questa domanda viene posta sulle cose, essa diventa più urgente quando l’uomo la pone su di sé e il porre la domanda su di sé diventa il tipico problema dell’uomo, perché nel soffrire, nelle urgenze della vita, anche gli animali patiscono, ma l’uomo si pone la domanda del “perché del patire” e si pone la domanda sul destino della vita. Di conseguenza l’uomo ha avvertito che non poteva essere tutto finito e così, fin dall’antichità, ha immaginato che ci fosse nel grembo della terra un luogo in cui qualcosa dell’uomo permaneva, era il così detto mondo delle ombre, l’ombra. Quando noi andiamo al sole proiettiamo qualcosa, questa macchia, qualcosa di noi che non è noi, ma è qualcosa di noi. Veniva considerato la sopravvivenza di qualcosa, ma solo come un residuo di vita, senza spinta, senza forza, esangue. Questo è ciò che gli uomini hanno potuto raggiungere e più che la risposta è importante che l’uomo rimanga sulla domanda: “qual è il mio destino?”. Questa è la domanda. Se la domanda è posta seriamente allora noi cominciamo a considerare seriamente il destino di qualcuno: il destino di Gesù Cristo e soprattutto il destino di una creatura come noi che lo abbia già raggiunto. L’assunzione al cielo, cioè l’esistenza presso il grembo di Dio, direttamente nella comunione con Dio, di una creatura, viene posta ai cristiani, agli uomini, a tutti gli uomini, come risposta alla domanda sulla ragionevolezza della vita, sul destino della vita. In questo modo, allora, noi capiamo come l’accogliere che ci sia un destino buono, di pienezza di vita, di identità della persona, che passa anche oltre la strettoia della morte, sia una verità da accogliere necessariamente e se uno non la coglie non è pienamente cristiano. Questo è il significato della parola dogma nella chiesa cattolica. Il dogma non è un enunciato che sta là per aria, ma una luce gettata sulla nostra esistenza, che se viene meno non c’è una coscienza di sé, non c’è un modo di vedere, non c’è un’intelligenza di sé, del mondo, della storia del mondo, adeguata. Osservando Maria, che ha un’esistenza completamente permeata dalla presenza di Dio, noi vediamo, in qualche modo, indicato il destino della nostra vita. È importante sapere che Maria è assunta nella comunione di Dio con tutta la storia della sua vita, con tutta la memoria di sé, con il paesaggio, con i volti delle persone che ha incontrato, perché “corpo” non è tanto una questione di muscoli o di ossa: il corpo propriamente è ciò che nella storia ha dato fisionomia all’identità della nostra persona e vuol dire che ciò che di bello, di buono, di giusto e di valido è stato sperimentato continua ad essere motivo di soddisfazione, di gioia anche nella vita eterna. Le persone che noi abbiamo incontrato, i volti che abbiamo conosciuto, le affezioni che noi abbiamo avuto non vanno perdute. Se realmente intendiamo, nel significato pieno, la parola corpo, essa significa la totalità della persona. Cosa saremmo noi stessi senza il volto delle persone che sono state all’origine e ci hanno accompagnato nel corso della nostra esistenza, il volto delle persone che noi abbiamo amato e che amiamo? Se viene meno questo, sparisce tutto, noi non siamo più, il nostro io, potremmo dire, diventa una parola priva di qualsiasi contenuto. Ci viene invece indicato che il nostro destino non consiste solo nel avere memoria di tutto ciò che è accaduto, ma tutto ciò che è accaduto, nel volto luminoso di Dio, raggiunge la sua pienezza, il suo significato. Vedete come una luce venga sul nostro quotidiano, pieno di valore, perché il nostro quotidiano non finisce col tramonto del sole, ma è destinato alla vita eterna. Il nostro quotidiano quindi, comunque vissuto, ha in se stesso qualcosa dell’eterno, ha qualcosa di una potenza e di un vigore e di una destinazione assolutamente sorprendente. Questo vuol dire, allora, che, se questo è il valore,  dobbiamo avere molta cura della vita e noi viviamo in un tempo in cui c’è come il non prendersi cura della vita e questo è un fatto grave, perché vuol dire che l’orizzonte in cui l’esistenza viene posta esclude di per sè il destino della comunione con Dio. In una vita in cui venga meno il significato, il destino buono presso Dio, la comunione con Dio, il quotidiano bisogna bruciarlo subito e l’esistenza diventa una successione di fuochi d’artificio, uno dietro l’altro, per cui vivere venti, trenta, quaranta o cinquant’anni non è importante, l’importante diventa il numero di fuochi d’artificio che si compiono. Occorre quindi che noi chiediamo al Signore di avere questo sguardo adeguato sull’orizzonte totale, pieno, della vita, in modo tale che anche i diversi fattori della vita quotidiana acquistino la giusta rilevanza e così possiamo vivere il nostro tempo come storia buona, che raggiunge il suo compimento nel grembo di Dio.

 

Vangelo: Gv 6, 41-51

Data: domenica 13.08.2000

   Veniamo invitati oggi a riflettere sulla condizione umana. L’uomo non può avere sempre lo stesso ritmo, ma ha bisogno del riposo. Il tema, quindi, è la stanchezza. Solo che ci può essere, anzi c’è, una stanchezza sana, stanchezza che ci indica come ciò che abbiamo speso, come energia fisica muscolare, ha bisogno di essere reintegrata e quindi la stanchezza è segno sano che l’organismo chiede a noi un lasciare, una tregua, per il rigenerarsi delle forze. Ma c’è un altro tipo di stanchezza, potremmo dire, che è la “stanchezza di vivere”. Stanchezza di vivere che è di un altro genere, si ha specialmente quando uno è perseguitato da una malattia che dura e dura e non si vede la via di uscita, oppure anche quando pur desiderando una buona armonia in casa, marito e moglie, cos’è cosa non è, non va “nonostante che…” e non si sa da che parte farsi. Oppure ci può essere anche una stanchezza di vivere, perché il lavoro che fai, lo fai, però, non ti riempie il desiderio di affermazione e potremmo dire di sottolineatura di te, della tua identità, della tua espressione. È come se tu recitassi la parte di un altro. Di fronte a questa stanchezza di vivere ci viene indicato che esiste un rimedio . Nella prima lettura abbiamo il profeta Elia che sente questa stanchezza di vivere. Nonostante che la sua missione sia confermata all’origine e confermata anche dai miracoli da parte di Dio, egli si trova che il popolo non lo segue, le autorità religiose gli sono contro, quelle civili  e militari ugualmente; diciamo “io qui non ci cavo niente”, per cui si rivolge direttamente al suo Signore e gli dice: “insomma non vedi che il mio darmi da fare non produce niente, sono solo, stanco di quella stanchezza radicale nel fondo del mio vivere”. Allora questo uomo vuole iniziare una fuga, da ciò che il Signore gli ha affidato e mentre si riposa nella fuga, il Signore gli manda una angelo, che gli da pane e acqua, ma un pane e un’acqua tutta particolare, un pane e un’acqua, quindi un ristoro, che gli permette di camminare nei luoghi dove c’è l’origine di una storia. Questo uomo, quindi, inizia un camminare, ma non è più una fuga, è un pellegrinaggio verso il luogo dell’origine. Un pellegrinaggio verso il monte Oreb, verso il monte dove Mosè ha ricevuto la visione del Signore, il luogo, quindi, dell’origine della consistenza e della liberazione del popolo ebreo dalla schiavitù; notate il passaggio: dove l’uomo, non trovando più in se stesso nessun tipo di risorsa, ha il coraggio di dire in faccia al suo Dio: “non ne posso più”. A differenza di ciò che il popolo ebreo ha fatto di fronte alle difficoltà:      “mormorava”, notate il punto. Il mormorare significa dire parole, l’un l’altro, di un disagio, ma che, in fondo, piange su se stesso. È come la contemplazione di una situazione dolorosa, che di per sé genera una maldicenza, potremmo dire, una critica, un mormorare contro, dove c’è una serie di parole, dove dalla bocca delle persone escono sì delle parole, ma sono tutte come frecce avvelenate contro qualcuno, ma avvelenate, perché è avvelenato il cuore, perché è la persona stessa che sente il bisogno di buttare all’esterno come una reazione, perché ciò che sta vivendo non corrisponde in niente alla domanda della sua persona. Di fronte, anche, al parlare di Gesù come reagiscono i giudei? “Mormoravano”, notate questa cosa. Non è che ci sia qualcuno che dice: “io non capisco”, oppure: “spiegami cosa vuol dire” oppure “sostienimi nella mia fatica”. No, capite il modo, questo atteggiamento della mormorazione è un continuare, un rodio, una autotortura in se stessi. Diceva un saggio filosofo dell’antichità: “il male vero sono io che lo posso fare a me stesso, non sono tanto gli altri, ma io sì che posso fare del male, ma non tanto fisicamente, ma posso mettere in discussione, distruggere, in fondo, ciò che è in grado di edificare il volto, vero volto, della mia persona”. È l’angelo che mandato dal Signore dà al profeta Elia il pane e l’acqua per il cammino; il passaggio nell’orizzonte cristiano è immediato: c’è una celebre composizione poetica di San Tommaso che comincia: “ecce cibus angelorum”. Questo, si riferisce all’eucarestia, è il pane degli angeli, non perché lo mangiano gli angeli, ma perché è il dono che il Signore fa agli uomini, attraverso i suoi messaggeri. Attraverso l’avvenimento fatto quindi di Elia, noi veniamo aiutati ad avere una maggiore intelligenza nei confronti dell’eucarestia, considerando l’eucarestia come la risposta al disagio della vita, o la stanchezza di vivere. Quindi, primariamente, quando noi partecipiamo alla messa dell’eucarestia, la domanda è quella di fare uscire liberamente la verità, occorre essere sinceri non solo nei confronti delle persone, ma anzitutto nei confronti del nostro Dio. Non posso dire a Dio: “sono contento” e sto piangendo, occorre quindi che la sincerità, potremmo dire, sia dominante, così come i rapporti di verità, come tranquillamente il profeta Elia dice: “io non ne posso più”. Così, detto direttamente nei confronti di Dio, nella comunicazione stessa del proprio disagio è implicita una domanda: se uno mi dice “sto male”, “che cosa hai fatto”,rispondo, capite è l’inizio della possibilità della risposta, invece, nella mormorazione, è come il rimestare di fatto all’interno di un corto circuito, senza possibilità di uscita, è un rodio continuo, che lacera e basta. L’apostolo Paolo, in questo brano che ci presenta è di una finezza psicologica impressionante. Potete prendere il foglietto a casa e leggere il brano che è della seconda lettura, dove la domanda diventa: “com’è che tante volte mi arrabbio per una cosa da niente e invece di fronte ad una cosa seria, grave, riesco a mantenere il controllo, com’è che succede così”. È certo che quando mi arrabbio non ho solo dieci motivi, ma ne ho cinquanta, ma perché non mi arrabbio ugualmente quando succedono delle cose gravi? Notate. Vuol dire che da quella parte io ho “un nervo sciatico”, un nervo scoperto, vuol dire che da quella parte io ho in fondo, un timore, una paura, per cui l’altro o la situazione che me lo scopre, lo mette in evidenza, mi mette subito in un atteggiamento come del cane che ha paura, che tende a mordere. Ecco allora come si può avere la trasformazione attraverso la conoscenza di se stessi, cercando di educare la propria persona ad accogliere, perché noi per primi siamo stati accolti dal nostro Dio così come siamo, per imparare anche noi ad accogliere noi stessi così come siamo. L’esortazione è di amare il prossimo, ma il prossimo più difficile da amare è “noi stessi”. Quindi l’esortazione è d’avere cura di noi stessi, in modo tale che nella nostra persona la coscienza dell’essere accolti da Cristo sia dominante e così la nostra esistenza diventi il luogo in cui Gesù Cristo stesso acquista forma, luce, all’interno dell’umanità. Chiediamo al Signore che ci dia questa capacità di un amore profondo e questa energia, forza dello Spirito affinchè noi non siamo vittima della fatica di vivere. Nessuno sfugge a questa sensazione, a questa percezione. Dobbiamo chiedere al Signore che ci conservi il cuore aperto ad accogliere il suo aiuto, così che si rigeneri in noi la capacità di riprendere serenamente o anche faticosamente il cammino della vita

 

Vangelo: Marco 9, 2-10

Data: domenica 06.08.2000 (trasfigurazione del Signore)

   Per entrare nel significato dell’avvenimento della trasfigurazione ricordiamo un’esperienza che sicuramente è accaduta: quando una persona è lieta il suo volto diventa “luminoso”, quando una persona è triste allora il volto diventa un po’ “grigio” o addirittura si dice: “quello lì è nero”. Lo stato d’animo lieto si propaga nel modo di camminare, nella tonalità della voce, nel movimento delle braccia, cioè si propaga in tutto l’organismo, tant’è vero che c’è l’espressione: “quella persona è così lieta che non sta più nella pelle”. Così una persona che sia triste può essere anche vestita benissimo, però è più un vestito buttato su un attaccapanno, cioè non c’è concordanza fra il modo di agire e i movimenti della persona con ciò che la persona porta indosso. Occorre avere presente questo per capire il fatto della trasfigurazione. Anche se l’esperienza (l’esempio) è molto semplice, però siamo su quella linea. Gesù ha terminato la prima parte della sua vita e si incammina verso Gerusalemme, da Gerusalemme non tornerà più indietro. È finita una parte della sua vita, dove ha insegnato e operato miracoli. Inizia una nuova fase dove, umanamente parlando, al termine sta il fallimento totale. Nell’orizzonte umano sarà solo, abbandonato da tutti e condannato. Nell’orizzonte della fede sta la resurrezione. Gesù sale sul monte e si innalza sulla terra, ci sarà in corrispondenza, nell’orto degli ulivi, che Gesù fiaccato dalla debolezza, dalla paura e dal dolore sarà schiacciato a terra. Gesù sperimenterà nella sua morte un’immensa solitudine. Qui Gesù sale sul monte e il Padre, perché Gesù è vero Dio e vero uomo (notate), gli da la modalità di sperimentare che cosa voglia dire essere amato totalmente e quindi di sperimentare cosa significhi essere veramente il Figlio del Padre, nella totalità del suo essere. Questa luce, Dante la chiamerà: “luce intellettual piena d’amore”, dove, in fondo, alla parola luce, sostituite amore, e si vede che Gesù Cristo in tutto il suo essere, viene investito, permeato, dall’amore del Padre, così che tutto il suo essere, qui anche il vestito, tutto l’essere della persona, viene investito dall’amore del Padre, così che splende tutto l’essere, la verità di Gesù Cristo. Cristo quindi viene preparato al grande momento della passione e della morte attraverso un’esperienza profonda, totale, di amore del Padre. Gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni partecipano in una certa misura, viene detto di loro che non capivano propriamente che cosa volesse dire, che cosa accadesse, però essi si sentono investiti ed entrano a far parte dell’avvenimento e ne provano una grande gioia. La reazione di Pietro è: “facciamo tre tende”, vuol dire “qui si sta bene”, “sono contento di essere qui” ed è contento anche Gesù, perché coglie il pieno significato della storia della sua vita. In tutta la storia del popolo ebreo notiamo emergere dei grandi condottieri e dei grandi profeti. Condottieri e uomini d’azione, profeti come coloro che danno il significato e mantengono il significato degli avvenimenti, i simboli di Mosé ed Elia. Nella persona di Gesù converge sia la linea profetica, sia la linea dei grandi operatori e assieme a Gesù si trovano sia Elia che Mosè. Gesù prende quindi anche piena coscienza di sé, di essere il luogo di convergenza, la sintesi di tutta la storia del popolo ebreo, in lui converge tutta la realtà del popolo ebreo. Cristo, quindi, diventa la chiave di lettura, l’alfabeto attraverso il quale si può leggere tutta la storia del popolo ebreo. Cristo, quindi, acquista piena coscienza di sè nell’orizzonte della storia, quindi non è solo il Tu del Padre, ma il significato della sua persona in tutto l’orizzonte della storia. Pietro, Giacomo e Giovanni sentono che sono partecipi di un avvenimento che pone davanti ai loro occhi, in fondo, la risposta di desiderio di significato della vita, di completezza della vita e anche di gioia. Ed è per questo che essi vorrebbero che il momento che stanno vivendo continuasse nel tempo. In Gesù Cristo il Padre compie un momento, affinché Cristo stesso acquisti l’energia, la forza, per poter far fronte, in fondo, alla condanna e alla morte, prima che arrivi la resurrezione. In qualche modo è un anticipo della resurrezione. Infatti Gesù dice ai suoi apostoli: “non parlatene con nessuno (perché chissà che cosa potreste raccontare) però lo potete raccontare dopo la resurrezione, quando l’avvenimento è completo e quindi potete avere l’intelligenza anche del frammento, perché il significato del frammento si ha nel tutto, e questo tutto occorre che sia colto nell’orizzonte della fede. Questo mette in luce tutto un aspetto: “Dio provvede affinché le persone siano messe nella condizione per proseguire il cammino della vita, per proseguire il faticoso cammino della vita”. Non è che dalla passione e morte venga fuori in Gesù Cristo la forza della resurrezione della vita, ma il contrario. Dio Padre da a Gesù Cristo la forza di affrontare la passione e la morte attraverso una esperienza profonda e totale dell’amore con lui. Quindi il Padre immette in Gesù Cristo un momento di unità totale, che investe tutto l’essere della persona in modo tale che, l’essere della persona, prosegua nel tempo una storia e in base a questa esperienza positiva sia in grado di cogliere anche i momenti di solitudine e di abbandono. Occorre averlo presente, questo, perché Dio non investe mai una persona con una prova più grande, senza che ci sia stata una esperienza di gioia, di amore, di significato. Occorre quindi che i momenti in cui noi avvertiamo la presenza di Dio e sentiamo il significato della vita, fiorisce in noi il volto della nostra persona e la gioia di vivere, siano custoditi nella memoria della persona, perché debbono essere i momenti di luce in cui noi riusciamo ad affrontare anche i momenti in cui c’è la tristezza. Così anche Pietro, Giacomo e Giovanni fanno l’esperienza dell’essere insieme con Gesù Cristo, affinché abbiano un supplemento di energia nell’affrontare la sua passione e morte. Non hanno l’intelligenza piena e quindi la partecipazione piena all’avvenimento, di conseguenza nella passione e morte di Gesù resistono fino ad un certo punto poi se ne vanno. In Gesù invece c’è l’accoglienza totale di questa presenza di Dio nella sua esistenza e di conseguenza “riesce a far fronte”. È dalla gioia dall’esperienza positiva che sorge la forza per affrontare le difficoltà. La domanda si  gira. La domanda è: “ciascuno di noi come custodisce in se stesso la gioia di essere cristiano?”. Solo un cuore lieto dalla gioia e dal rendersi conto di essere stato scelto da Dio è in grado dopo di illuminare e quindi di avere un’intelligenza adeguata dello spessore del significato dell’esistenza. Ciò che è accaduto a Gesù Cristo, perché, notate, benché il nome di Gesù compaia quattro volte, non è lui che agisce, la trasfigurazione è accaduta a Gesù Cristo, per iniziativa di Dio Padre, questa esperienza dell’amore con Dio Padre gli permette di proseguire nel tempo la sua storia, così che avendo colto il significato della propria vita nell’orizzonte del Padre, Gesù la affronta assieme ai suoi apostoli, anche nella solitudine, con una adeguata intelligenza e un’adeguata energia per potere proseguire nel tempo. Perché ci sono veramente delle strettoie nella storia umana, ma soprattutto nella storia delle persone che richiedono questo supplemento di luminosità o, se volete, di esperienza di amore, così che l’uomo può superare anche ciò che umanamente non sarebbe possibile. L’annuncio quindi della trasfigurazione, primariamente dev’essere una luce di amore che si riflette su di noi, così che sappiamo leggere all’interno di noi stessi i segni di questo amore di Dio, che lascia traccia e mobilita il nostro essere riempiendolo di significato.

 

Vangelo: Giovanni 6, 1-15

Data: domenica 30.07.2000

Per alcune domeniche ci accompagnerà il Vangelo di Giovanni. Soffermate la vostra attenzione sulle ultime espressioni del Vangelo: “si ritirò sulla montagna tutto solo”, su questa figura di Gesù sulla montagna, nel grande silenzio, solo. Questa solitudine di Gesù Cristo indica chiaramente come il grande progetto degli uomini di farlo re, di dargli cioè un potere, non corrisponda al progetto di Gesù, egli rimane solo perché, anche se di per sé non è cattivo l’entusiasmo della folla, la folla ha un progetto su di lui che non corrisponde alla sua verità, non corrisponde al progetto di vita vero che egli ha in se stesso. Quindi questo tipo di rapporto, questo progetto che gli altri hanno su di lui, lo inducono a deviare dal progetto che Dio Padre ha su di lui, che è “la sorgente della verità dell’esistenza”. Ecco che Gesù vive un momento della sua vita, ce ne saranno altri, in cui prima era seduto con gli apostoli: ”si pose a sedere con i suoi discepoli”; poi, invece, è solo, perché il rimanere con le persone sarebbe un camminare, uno sviluppare la propria vita, non in concordanza con la verità di sé stesso, col proprio destino, con la verità della propria vita. Gesù quindi sente il bisogno di rimanere con Colui che è sempre con lui: ”Io ed il Padre siamo una cosa sola”. Questa solitudine di Gesù Cristo non è assoluta, ma è il rientrare in se stesso di una persona per entrare in comunicazione con l’io profondo, con la sorgente della vita. Gesù si ritira da parte e, potremmo dire, entra in consiglio con il Padre. Di per sé la parola consiglio vuol dire essere in silenzio con un’altra persona, essere in silenzio con un’altra persona che parla, che ti dice chi sei, notate il passaggio. Per cui Gesù si trova da solo, ma rispetto a tutti coloro che vorrebbero deviare il corso della sua vita. Questo è importante averlo presente, perché diverse volte Gesù dovrà raccogliersi in se stesso e decidere sulla sua vita. In un certo senso, “io chi sono destinato ad essere”, “io chi voglio essere”, “qual è il tragitto della mia esistenza che in fondo costruisce una storia, cioè l’identità della mia persona?”. Questo è molto importante, perché non basta che venga proposto, potremmo dire, un progetto buono, il problema fondamentale è che ciascuno di noi, ciascuna persona ascolti quel silenzio profondo, misterioso che è in ciascuno di noi. Una certa dose di solitudine è inevitabile nell’uomo, perché l’uomo ha in se stesso una profondità che partecipa del mistero di Dio. Esiste un luogo sacro in ogni uomo, in ogni persona, che è abitato da Colui che è l’origine della tua identità, della tua persona. Possiamo chiamarlo anche il luogo sacro della coscienza della persona, ma questa coscienza della persona non è tanto ciò che io sento di me, ma ciò che io, nell’ascolto, nel silenzio ascolto: voce originaria della vita. Per noi cristiani la prima parola che dice la verità su di noi, la prima persona che dice il nostro nome, non siamo noi, ma è Dio che dice il nostro nome per primo. Di conseguenza mettersi in ascolto di Colui che parla, della parola del Signore, è la condizione affinché il nostro presente, il nostro futuro abbia un percorso, di verità, di bontà e di giustizia. San Paolo è preoccupato che i cristiani si educhino a questo atteggiamento di ascolto e dice loro: “comportatevi con umiltà, mansuetudine, pazienza, sopportandovi a vicenda con amore”. Notate come coglie lo scorrere della vita quotidiana, dove l’umiltà è l’accoglienza delle proprie capacità, ma anche dei propri limiti, è avere un rapporto con se stesso secondo verità. L’umiltà non è la negazione di ciò che sei, ma l’accoglienza di ciò che sei, nei suoi limiti. La mansuetudine è propria di colui che si lascia educare dalla vita, la persona che impara a vivere in base all’esperienza e quindi è l’esperienza stessa che aiuta la persona a diventare veramente se stessa. Pazienza è il perseverare nel tempo. Poi c’è: “sopportandovi con amore”. Sopportare significa sentire l’urto del limite dell’altra persona, i difetti dell’altra persona, ciò che ti da fastidio nell’altra persona. Nello stesso tempo l’amore all’altra persona ti da la forza di proseguire nel tempo, anche nella sofferenza del limite. Questo è ciò che Gesù ci viene ad indicare affinché nei nostri giorni conserviamo, da una parte, un corretto rapporto con le persone, però senza dimenticare che esiste sempre un momento di silenzio, un momento di solitudine in ciascuno di noi, che è precisamente il luogo in cui noi possiamo incontrare il nostro Dio, che è precisamente lo spazio nel quale noi possiamo incontrare la voce di Colui che ci ha risvegliato all’esistenza. Momento di silenzio religioso, praticamente, è una invocazione: “risveglia o Signore, ripetimi quella parola, in modo tale che di nuovo io sia risvegliato al cammino della vita”. Chiediamo al Signore di darci la capacità di questo ascolto di noi stessi, di questo ricevere un consiglio come verità che risuona in noi stessi, ricevuta da un altro, cosicché anche nella nostra preghiera non siamo noi che, per così dire, ci sfoghiamo col Signore (è buono anche questo), ma primariamente che sia un momento nel quale noi chiediamo al Signore di risuscitare quella parola di vita che ci ha aperto alla speranza, così che i nostri giorni siano illuminati dalla sua parola e sostenuti dalla forza della sua Grazia.

 

Vangelo: Marco 6. 30-34

Data: domenica 23.07.2000

   Uno dei ricordi umani, di esperienza umana, in qualche modo più sorprendenti, è quello di chi, avendo partecipato alla vita della casa, ha visto il babbo o la mamma proprio stanchissimi, proprio che “li avevano spesi tutti”, eppure di fronte ad un qualche bisogno dell’uno o dell’altro dei figli balzavano su come se fossero pieni di energia. Perché accade questo nelle persone? Oppure può essere accaduto anche a noi di trovarci a casa molto stanchi e desiderare solo di essere un po’ tranquilli e invece di vedere uno della nostra famiglia, un familiare bisognoso e immediatamente “ti muovi”. Perché accade questo? Accade questo perché c’è radicato un senso di appartenenza reciproca, perché ciò che accade all’uno non solo si ripercuote sull’altro, ma mobilita le energie in modo tale che si, in questa condizione di squilibrio, ristabilisca l’armonia. È questo senso di appartenenza reciproca che indica come l’esistenza dell’uno sia strettamente legata e condizionata, e anche la felicità dell’uno, il gioire dell’uno, il vivere dell’uno sia legato all’esistenza dell’altro. Occorre che noi abbiamo presente questa esperienza elementare, ma che rivela una vera umanità, per capire i gesti di Gesù Cristo. Egli è stanco, ha fame, ha sete, si è mosso, però vedendo le persone che erano randagie, alla ricerca di una guida, egli percepisce la loro situazione, “si commosse”, notate questa è una connotazione che non si esaurisce nella semplice percezione. Talora noi ci commuoviamo di fronte ad un fatto e raccontiamo la nostra commozione: non è la risposta adeguata; avvertire il bisogno della persona significa avvertire la domanda, significa cogliere l’urgenza della risposta e quindi una persona si commuove realmente quando coglie la domanda ed entra in azione per la risposta. Gesù entra in azione per la risposta. Questo è il comportamento di Gesù, e normalmente nel Vangelo occorre avere molta attenzione ai comportamenti di Gesù, perché sono i comportamenti che rivelano i sentimenti; facilmente si può dire ti amo, ti voglio bene, ma è attraverso l’espressione e il comportamento fisico che si ha il rivelarsi dell’affettività. Cristo quindi sente di appartenere, che le persone gli appartengono, egli fa parte di un unico progetto e quindi di un’unica famiglia. Quando noi, quindi, ci rivolgiamo a lui nella preghiera non abbiamo a che fare con un altro, con uno che passa per la strada, un estraneo, ma abbiamo a che fare con una persona che già avverte di appartenere alla nostra famiglia, alla nostra casa, all’unità della nostra esistenza. È importante cogliere nel Vangelo, nella riflessione cristiana, anzitutto il comportamento di Gesù Cristo, in modo tale che in noi si colga quella disponibilità, quella sincerità e quella affidabilità di Gesù Cristo, perché ogni uomo ha bisogno nella vita di seguire una guida, non solo i bambini, ma via via che si vive, incontrando sempre nuove esperienze e volendo vivere nuove esperienze, non ci si può buttare così d’improvviso senza nessun criterio, ma occorre che ci sia qualcuno affidabile che ti guida. È poi ciò che anche istintivamente noi facciamo, quando ci troviamo di fronte a una situazione nuova, riandiamo con la memoria, anche se si ha una certa età, a ciò che diceva nostro padre, nostra madre o ciò che diceva e faceva una persona che abbiamo incontrato nella vita e ha dimostrato affidabilità, una persona di cui ci si può fidare. La domanda, allora, diventa: “queste folle che sentivano di essere randagie, avevano il bisogno di una guida e l’hanno trovata in Gesù Cristo, noi, anzitutto, avvertiamo il bisogno di una guida oppure noi nella vita, potremmo dire, procediamo secondo il principio “fai da te”; oppure, se desideriamo vivere, Gesù Cristo è realmente l’unità di misura a cui noi ci affidiamo o anche di conseguenza la Chiesa nella quale noi siamo immersi; qual è l’unità di misura del nostro comportamento?”. La domanda secca potrebbe essere: “tu chi stai seguendo?”. Perché noi seguiamo qualcuno, e viviamo, è sempre stato così nell’umanità, ma noi adesso particolarmente viviamo in un periodo dove c’è una quantità immensa di maestri di vita, di gente che pretende di sapere e di chiederti, secondo la loro volontà, quello che tu devi fare, perché loro si presentano come maestri di vita. Nella forma seria, nella forma più spessa o lieve del divertimento viene proposto un certo percorso di vita, occorre che noi siamo avvertiti di questo, in modo tale da non essere sorpresi, potremmo dire, perché siamo spensierati, perché siamo distratti. La domanda allora è: “noi realmente, nei confronti della vita, nei confronti delle difficoltà, siamo coloro che si muovono secondo il si dice, secondo ciò che “la televisione ha detto”, secondo ciò che “il giornale ha scritto” secondo ciò che “la radio ha detto”?”. Una delle cose, veramente, più deprimenti è l’ascoltare le persone che parlano e nello stesso tempo il renderti conto che ciò che viene detto l’hai già sentito, per cui non c’è niente, è come se la mente dell’uomo fosse come un registratore, che ripete semplicemente ciò che è accaduto, invece occorre che noi diamo credito all’esperienza della vita, occorre che noi in noi stessi sappiamo avvertire ciò che corrisponde alle nostre esigenze fondamentali e ciò che invece non corrisponde. Certo che occorre nella vita, in una pluralità di modi di pensare una certa tolleranza, ma una tolleranza occorre che ci sia non per svilimento del tutto, ma per riportare ogni cosa, ogni affermazione, ogni comportamento secondo una scala di valore. L’importante è che noi siamo avvertiti che la nostra esistenza non può procedere in modo randagio, ma occorre che noi seguiamo un progetto di vita e che noi seguiamo una persona affidabile, altrimenti qualcuno che ha tutto l’interesse a farci fare quello che vuole lui, in un modo o in un altro, ci costringe a seguirlo, non c’è alternativa, o sei tu che ti prendi la responsabilità della tua vita, quindi di seguire quello che hai valutato come cosa, realtà migliore per te, oppure un altro sceglie per te, è questa la terribile condizione, potremmo dire, o l’uomo vive o uno si lascia vivere, lasciarsi vivere vuol dire allora abbandonare le proprie energie, il proprio tempo secondo un progetto di vita di un altro. Il richiamo quindi che ci viene dal comportamento di Gesù è questo: lui si prende cura perché gli apparteniamo, se egli appartiene a noi, poiché Gesù Cristo è realmente affidabile ed è anche il nostro Salvatore, occorre che noi ci affidiamo a lui, ci affidiamo a lui affinché la nostra esistenza possa svolgersi secondo ciò che ha detto il salmista: “felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita”. Chiediamo al Signore di essere una luce forte della nostra mente, per mobilitare tutte le nostre energie per seguire la sua persona in modo tale che possiamo cantare col salmista “felicità e grazia mi sono compagne tutti i giorni della mia vita”.

 

Vangelo: Marco 6. 7-13

Data: domenica 16.07.2000

   Dodici uomini sono rimasti per un po’ di tempo assieme a Gesù, poco più di un anno, e Gesù li manda. Li manda a fare che cosa, a dire che cosa? È così essenziale ciò che essi debbono dire che non debbono avere nessun’altra preoccupazione che “dire ciò che debbono dire”. Di qui l’insistenza di non preoccuparsi del pane, della bisaccia, dei soldi, dei calzari e così via. Ma che cosa debbono dire? Debbono dire una sola cosa: “che hanno incontrato Gesù Cristo”, questa è l’unica cosa che debbono dire agli uomini, poiché il presupposto è che gli uomini siano in attesa di un Salvatore. Essi debbono raccontare agli uomini: “noi abbiamo incontrato Gesù Cristo il Salvatore” e mentre essi trasmettono questa notizia, questa loro esperienza, le persone che accolgono la parola accolgono anche l’avvenimento, vengono coinvolti assieme a questi dodici sulla esperienza fondamentale che essi hanno avuto sul significato, sul destino della loro vita. In fondo sono persone segnate: essi vivono e sono destinati a vivere e dovranno vivere per raccontare questa cosa. Notate che il passaggio fra questi uomini, che sono semplicemente degli uomini, il passaggio ad altri uomini è così veloce che nel giro di pochi anni, pochi decenni, tutto il bacino del Mediterraneo è invaso dalla notizia che esiste il Salvatore, la via di salvezza per tutti gli uomini. Tutti coloro che hanno incontrato l’annuncio di Gesù Cristo sono abilitati a raccontare quello che è accaduto, e lo debbono fare perché questo è lo scopo della vita. Coloro che hanno incontrato Gesù Cristo debbono raccontare il motivo fondamentale della loro gioia, del significato della loro vita ed esistono nel mondo perché l’avvenimento di Gesù Cristo incida su tutti e coinvolga la gente in ogni aspetto del loro vivere. Per fare questo non si richiede nè di appartenere ad un ceto sociale particolare, né di avere un livello di cultura e di istruzione particolare, ma così come il Signore ti ha colto, ti ha preso, con le parole che hai, tu “dici” e il Signore ti renderà successivamente più capace. Questo è importante averlo presente, perché questi uomini si rendono conto raccontandolo, riflettendo, di ciò che è accaduto, che sia capitato a loro nella loro esistenza, e non debbono raccontare altro. Notate, è precisamente quello che abbiamo trovato in San Paolo, il quale riflettendo sulla propria vita, mentre scrive agli Efesini, ma è una lettera indirizzata a tutte le comunità, come prima cosa della riflessione egli si sente in dovere di ringraziare Dio per sette benedizioni, dove la benedizione in Dio non è una parola, ma è una parola-azione, un avvenimento. Come può accadere che talora in famiglia si manifestino i sentimenti, ma nella maggioranza dei casi, fra gli adulti, ciò che si prova e si sente si manifesta attraverso il modo di guardare, l’attenzione, come si muovono le mani, le gambe e cosi via. Questo è il modo di benedire del Signore, che ha un certo comportamento e compie azioni. San Paolo, quindi, inizia la sua riflessione sulla sua esistenza, non sui suoi bisogni, perché se si comincia dall’insieme dei bisogni incomincia la sinfonia del lamento che non finisce più. San Paolo invece inizia la riflessione su di sé, sulla consistenza di se stesso, riflettendo su ciò che Dio ha già fatto nel passato. Dio ha già operato e vengono indicate le sue azioni, notate tutti i verbi sono al passato, la riflessione cristiana, questo è importante averlo presente, così la preghiera cristiana ha la sua origine in ciò che è già accaduto. L’avvenimento cristiano e ciò che determina la fisionomia e la coscienza del cristiano, sono le opere di Dio, le opere che Dio ha già compiuto. Le opere che Dio ha già compiuto sono il fondamento del nostro affidarci a Dio. Come facciamo con le persone? Quand’è che ci fidiamo di una persona in modo sensato? Quando in seguito all’esperienza abbiamo visto che quella persona è affidabile, per cui se gli dai un impegno lo fa, se è sì è sì e così via. Ci si può fidare di una persona ragionevolmente dopo un certo tempo di esperienza. Il fondamento della speranza cristiana, il fondamento della fede cristiana sono le azioni che Dio ha già compiuto. Notate, la forza e la ragionevolezza della fede cristiana sono gli avvenimenti del Signore. Importante, allora, che noi per irrobustire la nostra fede, non tanto  ripetiamo delle parole, ma raccogliamo, prendiamo coscienza di ciò che il Signore ha già operato. Perché è solo ciò che è già accaduto che dà consistenza alla nostra vita. San Paolo qui ne enuncia sette di avvenimenti, sarebbe opportuno che almeno uno colpisse, almeno il frammento di uno ci colpisse, perché ciò che è accaduto, dopo, diventa motivo, forza e slancio per la nostra esistenza, diventa quel punto iniziale attorno al quale poi si può raggomitolare tutta la nostra esistenza. Quando si ha un filo lungo, occorre avere un inizio, dove fermare la testa, potremmo dire, del filo, per fare il gomitolo ed è precisamente il significato che San Paolo, curiosamente dà alla persona di Cristo. Cristo che diventi come colui attorno al quale si annoda l’inizio della nostra fila, del filo della nostra esistenza, oppure usando un’altra immagine ci dice: “ricapitolare tutto in Cristo”. In passato non c’era la rilegatura di ciò che era scritto, in questo modo ma c’era il foglio lungo lungo e il foglio lungo lungo si annodava attorno ad un bastoncino. Il bastoncino, quindi, costituiva l’inizio di ordine di tutto il foglio. Il bastoncino si chiamava capitolo. Ricapitolare voleva dire raccogliere attorno ad un inizio sicuro, fermo, che dà poi fisionomia alla successione della vita, del foglio e quindi della vita. L’esortazione che ci dà San Paolo è questa, che la nostra esistenza o ha un punto di inizio sicuro, fermo, oppure siamo come i gatti quando si mettono a giocare col filo, diventiamo dei dilettanti della vita, ci giochiamo la vita. L’esortazione quindi di San Paolo è anzitutto di fare memoria di ciò che è accaduto, perché nella dimenticanza perdiamo noi stessi, facendo memoria di ciò che Dio ha compiuto nei nostri confronti, lì è il luogo di consistenza della nostra vita, di lì partiamo nella positività dell’esistere, del vivere. Certo che le difficoltà non vengono meno. Già nel vecchio testamento ad Amos non sono risparmiate le difficoltà, egli si muove semplicemente perché il Signore lo ha chiamato. Aveva un solo titolo: che il Signore lo aveva chiamato e questo è un titolo sufficiente nei confronti del Gran Sacerdote del Tempio, che era quello che dava l’autorizzazione alla parola. Dice in nome di chi, con l’autorizzazione di chi parli? Per quello che mi è accaduto nella vita, vivo quindi parlo. Seguite il passaggio com’è, la parola è vera perché la vita che conduco risponde alla Parola del Signore. Dobbiamo chiedere al Signore che ci dia questa capacità di saper leggere i punti di consistenza, di forza, della nostra vita, in modo tale che il nostro vivere giorno dopo giorno sia una benedizione al Signore, come riconoscenza di ciò che ci ha già donato e come conferma nella fede che i nostri giorni si svolgono con sicurezza, perché sono annodati a quella realtà consistente che  è Dio stesso, nella forma umana di nostro Signore Gesù Cristo. Diciamo assieme il Credo perché il Signore ci dia memoria delle sue opere.

 

Vangelo: Marco 6, 1-6
Data: domenica 09.07.2000

   Voi sapete che nelle grandi famiglie dell’antichità c’era un senso di appartenenza reciproco molto grande e anche nella famiglia di Gesù venivano considerati appartenenti alla stessa famiglia anche i cugini di primo e di secondo grado. Nella lingua al tempo di Gesù non esiste il termine cugino. Questo ci indica come e come dev’essere inteso, quale sia il significato della parola fratello o sorella che noi qui troviamo applicata nel Vangelo, perché noi sappiamo che Gesù non ebbe nessun fratello nel senso nostro, né nessuna sorella, perché Maria ebbe come figlio soltanto Gesù. Gesù si meraviglia della loro incredulità. Questa è una meraviglia non per un fatto eccezionalmente bello, ma piuttosto per un fatto eccezionalmente, imprevedibilmente negativo. In che cosa consiste l’incredulità dei compaesani do Gesù? Da una parte essi l’hanno visto, alcuni sono venuti su con lui, hanno giocato anche insieme e quindi c’è una evidenza di esperienza trascorsa nel tempo, poi c’è un’altra evidenza che è davanti ai loro occhi e nella loro memoria, perché il parlare di Gesù è lì innanzi a loro e ciò che dice è corrispondente alla parola del Signore in modo singolarmente autorevole e inoltre essi hanno avuto notizia dei miracoli compiuti da Gesù. Queste due evidenze restano separate, anzi, la prima evidenza di Gesù figlio di Maria e il vissuto insieme è così determinante da cancellare la realtà di Gesù come luogo in cui Dio si manifesta con la sua potenza, come uomo di Dio e Gesù viene impedito di essere la sua verità, notate il passaggio. Gesù si meraviglia che nell’uomo non ci sia la immediata adesione a ciò che è evidentemente vero. Esiste nell’uomo la possibilità dell’autoinganno, esiste nell’uomo la possibilità di venir meno a se stesso, in un certo senso anche la libertà dell’uomo ha bisogno di essere liberata altrimenti si raggomitola si chiude in se stessa e questo chiudersi di fronte alla realtà di Gesù Cristo impedisce a Gesù Cristo di essere se stesso. Notate che questo non succede soltanto con Gesù Cristo, succede in ogni rapporto umano, particolarmente se il rapporto è nell’ordine della quotidianità. Può esserci uno sguardo che paralizza la persona, un parlare che paralizza la persona e un parlare, un guardare, un considerare che risveglia la verità della persona. Cristo essendo osservato dai compaesani e ridotto semplicemente a ciò che era prima che si manifestasse la sua divinità, Gesù Cristo è impedito di fiorire. Questo indica come nell’uomo ci sia una complessità per cui di fronte, potremmo dire, all’affermazione del pensiero “l’uomo è buono”, si vede che di per sé l’affermazione è generale, non coglie la verità, così anche l’affermazione protestante che dice “l’uomo è irrimediabilmente cattivo” non coglie la verità, perché l’affermazione “l’uomo è buono” indicherebbe che di per sé ogni impulso che è nell’uomo può essere seguito, d’altra parte l’affermazione “nell’uomo tutto è cattivo” sottolinea il fatto che ogni volontà dell’uomo, ogni desiderio dell’uomo è impotente perché “non c’è niente da fare”. Sia la posizione, potremmo dire, libertaria in senso assoluto, sia la concezione rigida, protestante, porta di fatto ad una situazione irrimediabile. L’immagine invece che viene fuori, ed è l’immagine che noi cogliamo nel Vangelo, in tutta la bibbia poi, è quello che l’esistenza umana è un’esistenza drammatica, è un’esistenza dove c’è una grande complessità di impulsi, è un’esistenza nella quale occorre che ci sia qualcuno che organizza e modera e orienta le potenzialità ad uno scopo, perché lasciato libero in se stesso uno diventa un fascio di passioni inutili che non portano da nessuna parte. Questo occorre averlo presente perché non basta dire “io ha l’impulso a”; tutti i vizi capitali indicati dalla Chiesa, che noi conosciamo dal catechismo: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia e accidia, sono connotazioni che più o meno abbiamo addosso tutti, perché è esistita una sola creatura che non aveva, diciamo, questa complessità disgregante ed è la Madonna, che non aveva il peccato originale. Tutti noi, onestamente, dobbiamo riconoscere che per un verso o per un altro siamo in qualche modo squilibrati in una direzione o nell’altra e il compito nostro è di riportare all’unità progettuale la nostra esistenza. Questo, considerando che noi non siamo un semplice prodotto della casualità naturale, ma che l’uomo in quanto tale ha alla sua origine un progetto di Dio che è un progetto intelligente e quindi esiste una razionalità all’interno dell’esistenza stessa in vista di uno scopo. Già i profeti nell’antichità hanno sentito la durezza del contrasto fra l’immediato impulso dell’uomo e invece la docilità dell’uomo rispetto all’origine, perché è naturale per l’uomo ciò che è secondo l’origine e per chi ha una fede in Dio creatore, l’origine non affonda nel mondo zoologico, ma affonda nel mondo dello Spirito, affonda nel mondo di Dio stesso. L’origine dell’uomo….l’uomo pone le sue radici all’interno della divinità ascoltando quindi ciò che Dio dice dell’uomo, l’uomo modula se stesso e agisce di conseguenza. Anche l’apostolo Paolo ha sentito che nella sua esistenza c’era una difficoltà, non viene specificato quale fosse l’inconveniente che lo disturbava così tanto. Da quello che ci consta egli era per natura molto timido e quando cominciava a parlare non smetteva più. L’altro inconveniente, proprio per la costruzione della Chiesa era che quando si arrabbiava, era timido, ma quando si arrabbiava diventava di una mordacità tremenda e questo lo disturbava e, dice Paolo, ho chiesto a Dio che mi liberi, ma il Signore mi ha detto: “ti basti la mia grazia, quindi tu giorno dopo giorno sopporta e correggi per quanto ti è possibile te stesso e io ti sono di aiuto”. Ne viene quindi una visione della vita dove ciascuno di noi e sollecitato a liberare la propria intelligenza, la propria ragionevolezza dai corti circuiti che tendono di per se a rattrappire l’intelligenza dell’uomo, in modo che l’orizzonte umano sia continuamente aperto ad una possibilità di una maggiore verità nello stesso tempo occorre che noi chiediamo al Signore che liberi veramente la nostra libertà in modo da essere in grado ad orientare tutte le nostre potenzialità, perché le passioni sono delle potenzialità, perché è solo l’adesione anche tumultuosa verso la realtà  che ci permette di sbloccarci, tante volte, così occorre che chiediamo al Signore di orientare la nostra esistenza in modo tale che siamo col nostro sguardo positivo e di aiuto e di sostegno alle persone che sono accanto a noi e anche d’avere verso di noi uno sguardo che ci permette di considerare i nostri impulsi le nostre tendenze come via al raggiungimento di quel progetto unitario di vita che il signore stesso in Cristo ci ha rivelato. Diciamo assieme il Credo perché il signore ci dia amore alla verità dell’origine.

 

Vangelo: Marco 5, 21-43

Data: domenica 02.07.2000

   La prima osservazione che ci viene da fare è questa: “certo queste sono due persone, il capo della sinagoga Giairo e la donna, che non si rassegnano. Sono due persone a cui preme vivere e vivere pienamente, “costi quello che costi”. Perché sa benissimo, il capo della sinagoga, che rivolgendosi a Gesù dopo che Gesù è stato condannato, praticamente dal sinedrio, egli si rovina la reputazione, perde il posto; anche allora, per diventare responsabili di sinagoga occorreva un pochettino il curricolo come un professore, una cosa del genere, però egli ama la sua bambina. Costi quello che costi, anche la reputazione, lui ha sentito dire che Gesù fa delle cose che normalmente gli uomini non sono in grado di fare e quindi Gesù, checchè se ne dica, è un uomo di Dio. Egli quindi, mosso dall’affetto per la sua bambina, potremmo dire, si gioca tutta la reputazione, la carriera, tutto, e va da Gesù Cristo; c’è un momento veramente drammatico: quando egli è con Gesù e gli vengono a dire che la bambina è morta. Gesù se ne rende conto, che è un momento veramente difficile, e allora esorta di nuovo: “abbi fede”, lo sostiene. E così accade che questo uomo riconosce che c’è qualcuno in mezzo a loro che una volta che l’uomo si è avvicinato a questa persona, una volta che Gesù ha toccato la persona, la vita che sembrava che se ne andasse o addirittura se ne era già andata, riprende forza. Così anche la donna si trovava in una situazione disperata, perché, come è presso ogni popolo, ci sono quelle malattie che sono considerate contagiose, una persona colpita da una malattia contagiosa deve rimanere isolata e non può toccare, entrare in rapporto con altre persone, altrimenti trasmette la malattia contagiosa. Il disturbo che ha questa donna viene considerato, presso il popolo ebreo una malattia contagiosa, di conseguenza non le è permesso di avere nessun tipo di relazione, comunicazione con le altre persone. ha cercato  in tutti i modi di rivolgersi alle persone che almeno promettevano di guarire, ma non è accaduto niente. Questa però non si rassegna, il desiderio di vivere vince. Ha sentito dire, “sentito dire”, che c’è uno che guarisce, però sa benissimo che lei non può avvicinarsi a questa persona, perché esistono delle pene gravissime comminate a chi esce dall’isolamento e minaccia il contagio. Un po’ anche nei nostri tempi chi sparge una malattia contagiosa è una persona che è perseguibile. Quindi sa di trovarsi in una situazione dove la disperazione non può albergare a casa sua; la legge le dice di non farlo,ma il desiderio di vivere, la forza e lo slancio per la vita la muove a rischio della pena di morte. Incontra la persona di Gesù mossa dal suo desiderio di vivere e di vivere pienamente e lo raggiunge a tergo, gli tocca il mantello alle spalle. Gesù avverte che una dinamis, una potenza, una forza è uscita da lui, la potenza risanatrice di Dio e rivolge lo sguardo a questa persona piena di timore e le dice “ti è stata ridata la vita, figlia la tua fede ti ha salvata”, in questa espressione c’è da parte di Gesù Cristo un atteggiamento di grande rispetto e anche di grande affezione nei confronti di questa persona colpita dalla sofferenza. Queste due persone, sia Giairo che la donna malata, sanno che esiste su questa terra la possibilità che accadano delle cose di un altro mondo, delle cose che di per se l’uomo non è in grado di fare con la sua intelligenza, con la sua ragionevolezza non è in grado di fare, ma sono due persone che in se stesse hanno un senso di apertura nei confronti di un di più, non sono vittima della loro ragionevolezza, perché la ragionevolezza di per sé chiusa in sé autosufficiente fa dire:”abbiamo provato tutto, non c’è niente da fare”, notate, esiste una ragionevolezza che rende l’uomo prigioniero ed esiste una ragionevolezza che aiuta l’uomo a vivere. Viene fuori un criterio veramente impressionante. Ogni ragionamento che ti aiuta ad entrare in una realtà che ti fa vivere è buono, il ragionamento che ti impedisce di entrare in rapporto con la realtà tutta intera non è buono. Notate come ne deriva, dal comportamento di queste due persone, una indicazione etica di comportamento che trasmette realmente all’uomo un criterio assoluto. Ciò che è indegno di te, della tua capacità di intelligenza aperta all’infinito, ciò che è indegno di te è male e occorre che tu abbia una coscienza di te secondo il progetto che Dio ha su di te. cioè di un essere intelligente e libero, aperto ad un di più, perché tu sei immagine e somiglianza di Dio e in qualche modo appartieni a Dio, tu hai delle dimensioni che sono proprie di Dio e non puoi chiuderti in te stesso. L’esortazione allora che ci viene è, anzitutto di avere un’immagine di Dio come amante della vita ed è tutto il tema della prima lettura: Dio è amante della vita. San Paolo ci dice che noi vivendo e sperimentando la vita dobbiamo trasmettere questo orizzonte positivo nei riguardi di tutto ciò che esiste, nei confronti della vita, specialmente nei confronti di quella realtà complessa, misteriosa che è l’esistenza umana. Chiediamo al Signore di darci uno spirito e una intelligenza capace di non cadere prigionieri di noi stessi, della nostra mentalità, ma di essere continuamente capaci di esplorare il mare dell’essere, così che il nostro spirito resti sempre capace di accogliere la presenza di un di più, di qualche cosa che consideriamo appartenere ad un altro mondo; ma è Dio stesso che è entrato in questo mondo, che è entrato a far parte della nostra esistenza e desidera toccarci per risuscitarci e desidera che noi lo tocchiamo, in qualche modo nei sacramenti, nella vita religiosa, affinchè noi riacquistiamo la salute e la salvezza. Diciamo assieme il Credo affinché il Signore ci dia il coraggio di vivere la pienezza della vita.

 

Vangelo: Marco 16, 15-20

Data: domenica 04.06.2000

   In questa domenica, festa della Ascensione, si conclude da parte della Chiesa la meditazione sull’avvenimento della resurrezione di Gesù, perché l’avvenimento della resurrezione è un’opera di Dio molto molto complessa, che ha richiesto da parte della Chiesa una cura particolare, affinché prima fosse capita, accolta, poi venisse trasmessa di generazione in generazione nell’annuncio del Vangelo. Nella ascensione al cielo di Gesù si compie in qualche modo il ciclo iniziato con il Natale. Con il Natale Dio si è immerso completamente nella natura umana così da costituire, la realtà divina di Dio, una sola persona con la realtà umana. Nella persona di Gesù tutto ciò che si può dire di Dio si può dire, si dice, perché è veramente Dio; tutto ciò che si può dire di umano, di veramente umano, si può dire di Gesù Cristo, perché egli è realmente un uomo. Quindi l’unità fra la divinità e l’umanità, la condizione umana, la realtà umana, l’essere uomo è così grande da costituire una sola persona. Il fatto di costituire una sola persona vuol dire che la morte non riesce a separarle, ma finché continuerà ad esistere Gesù Cristo esisterà sempre la divinità e l’umanità nella stessa persona. Questo allora cosa vuol dire nella ascensione di Gesù al cielo? Che il figlio di Dio torna si a casa, ma torna nell’unità di una sola persona con la vera umanità. L’umano non è più separato da Dio, ma entra a far parte dello stesso spazio di Dio, perché nella persona di Gesù Cristo, nell’unica persona di Gesù Cristo è indissolubilmente posta la sua umanità. Se il paradiso è la vicinanza dell’uomo, lo spazio dell’uomo, per così dire, presso Dio, con l’ascensione al cielo di Gesù Cristo esiste realmente presso Dio uno spazio umano, uno spazio dove l’umano possa esistere, uno spazio dove la nostra umanità possa starci e questo è il paradiso. Con l’ascensione al cielo di Gesù Cristo ecco che presso Dio, nell’unità con Dio esiste quindi il paradiso, l’unità e la possibilità di presenza dell’intera umanità, perché se c’è una cosa, anche nel modo di pensare che assolutamente non è, l’uomo non è Dio. Eppure nella persona di Gesù Cristo, sfrondando il Natale degli aspetti di colore, di vibrazione sentimentale, andando al fatto così come è accaduto, ecco che noi ci troviamo di fronte ad un avvenimento misterioso e questo ha fatto molto problema nella storia del cristianesimo, perché molti pensavano che Dio, il figlio di Dio, si fosse immerso nell’umano, ma poi come attraverso un movimento di tangente, come le rondini che passano e bevono sull’acqua, fosse tornato così com’era su presso il Padre, e invece non è vero. Ecco allora che la festa dell’ascensione ci permette di capire il grande avvenimento della resurrezione, per cui la condizione umana per volontà di Dio è stata confermata, accolta, amata totalmente nella sua verità, così com’è, da Dio Padre creatore. Possiamo dire che il cielo è la verità della terra. Nella misura in cui noi sperimentiamo la verità, la bontà, la bellezza, noi in qualche modo abbiamo il segno, l’indicazione, la percezione di una presenza che è definitiva e piena soltanto in Dio. Di fronte a questo avvenimento qual è l’atteggiamento degli uomini oggi? Come è stata all’origine; ci dice l’evangelista: alcuni non credevano, altri fissavano il cielo aspettando che si ricostituisse, l’impero, l’indipendenza, la grande nazione degli ebrei, altri invece si sono mossi annunciando Gesù Cristo nelle diverse parti del mondo. Alcuni pur essendo presenti a ciò che accadeva prestavano maggiore attenzione ai loro pensieri che alla realtà. Questo è l’errore grave del pregiudizio, cioè l’intelligenza, l’attività dello Spirito nella sua massima espressione, non è nell’astrazione, nel vivere nel tetto, ma il compimento e la massima espressione dello Spirito consiste nel piano terreno, nel cogliere, nell’ubbidire, nell’essere docile nei confronti del reale, perché la verità non è pregiudizialmente nell’uomo, ma la verità sta di fronte all’uomo e l’uomo con la sua intelligenza riesce a coglierla. In qualche modo il reale plasma l’intelligenza dell’uomo, per potere essere adeguata a cogliere la realtà e quindi si richiede, ma del resto come in ogni tipo di conoscenza, l’ubbidienza dell’intelligenza nei confronti della realtà. In fondo la fede è questo tipo di ubbidienza nei confronti delle azioni di Dio. Altri invece riempiono le azioni di Dio o le promesse di Dio, dei loro progetti, altri invece in modo preciso ascoltano la parola del Signore e annunciano ciò che è accaduto, per cui ciò che è accaduto è stato sperimentato, viene posto nel loro cuore, nella loro intelligenza, nella misura del possibile e la loro bocca racconta l’esperienza, dove per esperienza non si ha semplicemente ciò che è accaduto, ma ciò che mi è accaduto e mi fa vivere. Questa è l’esperienza. Non qualsiasi cosa che accada possiamo qualificarla come esperienza, per questo che allora il cristianesimo è un’esperienza, fondamentalmente è un’accoglienza della parola del Signore, una docilità che diventa un’azione e questa azione determina nell’uomo, vincendo il tempo con la libertà, una storia, una storia vera, che è l’edificarsi della persona stessa. Chiediamo al Signore di darci questa docilità nei confronti del reale, questo amore alla verità completa, in modo tale che il nostro spirito non sia riempito delle nostre presunzioni, dai nostri pregiudizi, ma che il nostro spirito sia il luogo di accoglienza della verità cosicché nella misura in cui viviamo noi diventiamo sempre più partecipi della verità e del bene.

 

Vangelo: Giovanni 16, 9-17
Data: domenica 28.05.2000

   In queste domeniche dopo Pasqua la Chiesa ci invita a riflettere sul come possiamo in qualche modo sperimentare la presenza di Cristo risorto, come possiamo in qualche modo incontrare nello Spirito, ma realmente, la persona di Gesù. Nelle domeniche scorse la Chiesa ci ha fatto vedere come nel momento dell’assemblea cristiana Cristo è in mezzo a coloro che credono in lui, durante la lettura del Vangelo il Signore si rende presente alle persone, durante la celebrazione dell’eucarestia Cristo si rende presente alle persone. Oggi la Chiesa ci dice che esiste un altro modo di Cristo risorto per rendersi sperimentabile, incontrabile da ciascuno di noi e l’affermazione è piuttosto sorprendente: “ovunque si manifesti l’amore, Dio lì è presente, Dio è in azione, poiché Dio è amore”. La parola amore ha un significato particolare in tutto il Nuovo Testamento. Presso il popolo greco esistevano due termini per indicare l’amore, uno era eros, l’altro agape. Eros voleva dire “amare una cosa perché mi piace, amare una cosa perché è bella, affascinante”, agape vuol dire “amo qualcuno perché questo qualcuno mi appartiene e quindi debbo averne cura e quindi debbo avere un’attenzione particolare”. Se il primo termine indicava primariamente, il fascino di attrazione di una cosa che soddisfa ad una mia domanda, il secondo termine indica prevalentemente il richiamo che io sento di fronte al bisogno di un’altra persona. Tutto il Nuovo Testamento non usa la parola eros, ma usa la parola agape. Quindi la parola amore non è un sentimento spontaneo di simpatia nei confronti di un altro, ma è la persona che si rende sensibile alla domanda dell’altro che è presente e ti chiede se ci sei. In qualche modo la parola amore in tutto il Nuovo Testamento vuol dire prendersi cura di qualcuno. Dice Gesù “come il Padre ha dato a me l’esistenza e si prende cura di me e mi accompagna in ogni istante dell’esistenza, così io mi prendo cura di voi e do la mia esistenza per voi; voi che cosa dovete fare, se io ho dato la vita per voi? Occorre che voi nella stessa logica viviate insieme, dando la vita ciascuno per l'altra persona”. Notate il passaggio. Gesù dice, in fondo, “questo è il mio comandamento”, molte cose bisogna fare per un bambino, e se uno chiede “perché si debbono fare?”, “perché è il mio bambino!”,notate “il mio bambino”, dove esiste una logica dell’essere, una logica della realtà che poi si sfrangia nella vita quotidiana, per cui il bambino può avere sete, può avere fame, ha bisogno, e così via. Cosi dice Gesù: “occorre che ci sia una affezione alla mia persona. Se c’è un’affezione alla mia persona, dopo il comportamento segue questa logica, per cui l’esistenza cristiana è primariamente la affezione ad una persona e l’affezione ad una persona non è questione di studio, non è questione di livelli superiori di intelligenza, è questione di umanità. Nella misura in cui una persona esiste e vive la propria umanità è capace di amare. Ecco che Gesù, allora, viene ad indicarci che ogni volta in cui noi ci prendiamo cura di chi è attorno a noi, usciamo dall’egoismo chiuso di noi stessi, operiamo un gesto che è proprio di Dio, che esce da sé per avere attenzione all’altro. Gesù allora viene ad indicarci come la nostra esistenza sia primariamente l’esistenza di uno che ha guardato a noi per primo: “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”. Il fatto che noi siamo qui in Chiesa e in qualche modo siamo sensibili al richiamo di Gesù Cristo vuol dire che la parola di Gesù Cristo è già risuonata dentro di noi e noi, nella misura del cinque per mille o quello che è, rispondiamo, ma l’origine del richiamo alla nostra coscienza è Dio stesso; è Gesù Cristo stesso che ci richiama. Questo ci mette in uno stato d’animo anche abbastanza sereno, perché non siamo noi che andiamo alla ricerca di chissà chi o che cosa, in un mondo dove, nella sua infinita dimensione, non sappiamo se si tratta di Dio o del nulla, ma in noi stessi abbiamo l’esperienza di una voce che ci sollecita; e ci sollecita a fare che cosa? Ad aprirci nei confronti degli altri ed ad uscire dalla nostra solitudine, ad uscire dalla nostra insignificanza, perché l’uomo che si chiude in se stesso, praticamente è come l’acqua stagnante che imputridisce, si insterilisce e non è più buona a niente. Ecco che il Signore ci viene ad indicare come nella nostra esperienza e nell’esperienza delle altre persone, ogni volta in cui sorge una attenzione di amore, lì c’è Dio in azione. Noi non siamo abituati ad avere questo sguardo. Ovunque si manifesta l’azione di amore come cura dell’altro, che si tratti del papà e della mamma per il loro bambino, che si tratti dell’amore di un uomo per la sua donna, della donna per il suo uomo, dei figli verso i genitori, ovunque si manifesta la scintilla dell’amore, lì c’è Dio in azione. Occorre quindi che la nostra fede non proceda in un mondo astratto, dove c’è una grande solitudine, un grande freddo, un grande silenzio, Dio lo troviamo nel nucleo vitale di esistenza dell’umano, perché Dio è all’origine, è la sorgente della nostra vera umanità.

 

Vangelo: Giovanni 15, 1-8
Data: domenica 21.05.2000

   Fino alla Pentecoste la Chiesa mantiene il nostro sguardo fisso su Gesù Cristo, sul risorto. Solo che l’avvenimento Gesù Cristo occorre che sia colto nel suo significato, perché una realtà di cui non si coglie il significato non è una vera e propria conoscenza, il puro dato di fatto non è una conoscenza umana. Cogliere il fatto e il significato è il compito dell’intelligenza. L’avvenimento essendo unico non ha per noi possibilità di confronto ed è per questo che la Chiesa ci fa ascoltare la parola che Gesù stesso ha detto su di sé. Il brano che abbiamo letto è tolto dal discorso, dal testamento di Gesù nell’ultima cena. Gesù ci dice il suo obbiettivo, ed è ripetuto come un ritornello, “io in voi, voi in me”, una immanenza nell’uno e nell’altro, diciamo una simbiosi, un vivere  insieme uniti per cui una realtà,che è duale in se stessa, è costituita da due realtà. Accade talora, di incontrare una persona che ti sembra di avere già visto, poi vieni a sapere che quello lì è il figlio di uno che conosci, dove l’appartenenza biologica lascia i suoi segni. Gesù desidera che la nostra appartenenza a lui e con Lui al Padre determini in noi una fisionomia propria del volto che il Padre ha istituito nella persona di Cristo. Per cui Gesù Cristo vuole che in noi vi sia l’accoglienza della sua presenza, così che in ciascuno di noi in qualche modo abbia a risplendere il volto di Dio Padre. È singolare la funzione che viene attribuita a noi adulti da Dio stesso, ciascuno di noi diventa in qualche modo la via attraverso la quale Dio comunica il suo volto agli esseri, ai cuccioli dell’uomo, alle persone che sono introdotte nella vita. La funzione quindi di ciascuno di noi adulti è in qualche modo di esprimere la paternità di Dio, di esprimere Dio, che si autodefinisce Padre nella sua verità più profonda. Possiamo dire che l’uomo è ad immagine e somiglianza di Dio e manifesta la verità profonda di sé in quanto paternità e maternità. Questa è potremmo dire la maturità dell’essere umano in quanto tale, capacità di paternità e di maternità. L’uomo religioso che desidera in qualche modo porre la propria esistenza in un orizzonte dove ogni cosa sia significativa, il che comprende anche l’ultimo avvenimento della vita che è la morte, resta sempre ed è rimasto in dubbio per molto tempo, sul rapporto che Dio stabilisce con l’uomo in quanto tale. Gli antichi erano propensi a pensare che la grandezza di Dio l’immensità di Dio, la purezza di Dio non era compatibile con un rapporto stretto con la condizione umana, essi pensavano che Dio si interessava sì dell’umanità, ma dei popoli oppure si interessava dei capi delle nazioni, ma non con tutta la gente, invece Gesù Cristo è venuto a dirci “ no non è che Dio si interessi della gente, Dio si interessa di ciascuna persona singolarmente presa”. Proprio perché si interessa di ciascuno, col suo nome e cognome Dio si interessa di tutti. Dio non va dall’astratto generale al concreto, ma compie precisamente il cammino inverso, poiché ama me, ama te, ama lui, e così via allora ama tutti. Questo modo di pensare è molto importante perché in fondo la coscienza di ciascuno di noi pone la domanda e l’io di ciascuno di noi ha bisogno di trovare in se stesso la sua risposta. Dio quindi attraverso Gesù Cristo viene ad indicarci, come sia sua cura, sua preoccupazione che in noi si sviluppi una corretta coscienza di noi stessi e quindi un’immagine vera di Dio stesso. Diceva sant’Agostino: “ogni giorno bisogna recitare il padre nostro, perché recitando il padre nostro noi diventiamo sempre più coscienti del nostro battesimo”. Il padre nostro è costituito di parole che non sono state inventate da noi, ma Gesù Cristo le pone sulle nostre labbra, affinché noi impariamo a pensare così, perché impariamo a sentire così, a sentire di noi stessi così. Il nostro modo in genere di insegnare parte dall’enunciazione astratta dell’insegnamento verbale all’azione concreta, invece nell’oriente è sviluppato il procedimento inverso: “se vuoi acquistare un certo stato d’animo compi quei determinati gesti”, e sono precisamente i gesti che uno spontaneamente compie quando è in quel particolare stato d’animo. Gesù ci indica che attraverso la preghiera, attraverso quella preghiera del padre nostro noi possiamo indurre in noi stessi una corretta concezione di noi stessi, del nostro tempo e della nostra vita. Seguire Cristo risorto primariamente, allora, vuol dire seguire quell’intimità di noi stessi che è propria di Dio. Dio è più intimo a noi stessi di quanto noi non lo siamo, poiché Dio entra nella profondità del nostro io, là proprio dove c’è il momento sorgivo del nostro io, della nostra persona. Chiediamo al Signore di darci una corretta coscienza, cosicché la sua presenza sia vista nella profondità di noi stessi e, avendo una corretta coscienza di noi stessi, abbiamo una sguardo corretto su di lui e accogliendo lo sguardo corretto su di lui, trasferiamo su di noi uno sguardo adeguato alla realtà che egli ha costituito di ciascuno di noi.

 

Vangelo: Luca 24, 35-48

Data: domenica 07.05.2000

Quando si è provato una grande delusione si è molto frenati prima di imbarcarsi un’altra volta in un’impresa entusiasmante. Grande era stato l’entusiasmo di questi uomini che erano stati con Gesù Cristo; momenti di fatica, di sofferenza, però era bello starci con lui. Questa grande attesa però si è infranta contro la croce, perchè Gesù Cristo posto in croce, umanamente parlando, significava che era finito tutto e “tutti a casa”, “è finita”. Di fronte a Cristo che si manifesta a loro, da una parte, immediatamente provano un grande entusiasmo, dall’altra parte non vogliono cadere nell’inganno. E sotto sotto la prima idea che essi hanno è di vedere come una fantasma. Qualcosa che all’esterno si presenta come la proiezione di un timore, ma Gesù vuole che essi constatino che la realtà che essi stanno vedendo è realmente fuori di loro, non è la proiezione all’esterno di un desiderio o di una paura che essi hanno in se stessi, ed è per questo che dice:”guardate le mani, sono tutte segnate dalla croce, i piedi sono segnati dai chiodi”, il tono della voce; poi Gesù vuole ristabilire quel rapporto di amicizia di sentirsi vivere insieme, di famigliarità, perché loro lo sanno che quando Gesù è stato preso sono scappati via tutti e quindi che hanno tradito l’amicizia di Gesù Cristo, lo sanno tutti. Il vangelo parla molto di Pietro, ma tutti hanno fatto allo stesso modo, ma Gesù lascia perdere il loro comportamento e vuole ristabilire un contatto e così desidera che essi lo tocchino, come può accadere fra amici che si stringono la mano, oppure si mettono la mano sulla spalla oppure, dice Gesù, avete qualcosa da mangiare, perché mangiare insieme, nella stessa tavola, esprime una famigliarità, quindi Gesù vuole ristabilire con queste persone un rapporto di amicizia che era stato interrotto dal grande avvenimento della passione e della morte. Essi sono sicuri: la tomba è vuota, Gesù non è nella tomba, la domanda diventa:”dov’è? E se è vivo, dove si può trovare?”. I racconti che noi abbiamo servono per rispondere a questa domanda:”se Cristo è vivo” dire semplicemente che è in paradiso che è nel cielo, capite significa dire che è in un orizzonte per noi non raggiungibile, non sperimentabile, di conseguenza è irrilevante, perché ci sia o non ci sia è la stessa cosa, porre la domanda: “dov’è Gesù Cristo, dove si può incontrare”, indica come sia preoccupazione di Gesù Cristo aiutarci, affinchè l’esperienza di questi che l’hanno incontrato accada in qulche modo nei cristiani. Ecco che allora, anzitutto, Gesù spiega la bibbia che vuol dire “i libri”, scritti prima di lui e dice “tutti questi libri non sono altro che il racconto di una storia che ha il suo compimento nel messia”, non basta leggere la Bibbia, ma bisogna sapere qual è la storia che vi si costruisce, perché ci sono delle pagine della Bibbia che sono tutt’altro che edificanti, leggere la bibbia semplicemente per avere dei buoni pensieri, dei buoni stimoli, non serve si possono leggere tantissimi altri libri, ma poi ciascuno di noi in qualche modo in se stesso può trovare nella riflessione l’impulso a fare bene. Il motivo invece per cui Gesù dice che nella Bibbia si parla di lui, ci indica che dobbiamo leggere tutto ciò che è stato scritto, quei quarantacinque libri, che sono poi la biblioteca degli ebrei, in prospettiva di Gesù Cristo. Talora passano a casa nostra delle persone che leggono anche la Bibbia, delle frasi della Bibbia, ma se non si ha un criterio di lettura, uno da quarantacinque libri tira fuori tutto quello che gli pare e se voglio dire quello che mi pare non ho bisogno di leggerlo altrove. Notate l’inganno che c’è, se viene meno un criterio di lettura. Ogni libro va letto secondo l’intenzione di chi l’ha scritto, altrimenti uno se ne appropria abusivamente, gli fa dire quello che vuole. Anzitutto, quindi Gesù, ci dice che leggendo la Bibbia noi possiamo vedere, riconoscere la parola del Signore che investe la nostra vita e ci aiuta a vivere, il secondo luogo è che Gesù si fa presente nell’eucarestia: “questo è il mio corpo, questo è il mio sangue” e Gesù Cristo si fa presente nell’insieme dei cristiani. Ora è importante che noi che siamo come gli apostoli, da una parte presi dalla fede, dall’altra parte dal timore, dall’incredulità, perché ciascuno di noi è un po’ credente e un po’ non credente, ci avviciniamo a Gesù e abbiamo tutti bisogno di essere ravvivati nella fiamma della fede, in modo tale che l’incontro con Gesù Cristo il, Cristo vivente, il Cristo risorto sia da noi in qualche modo sperimentabile nella nostra vita. Così colui che seguiamo, il volto di Cristo, sia realmente colui che ci trasmette un po’ della sua vita, affinchè la nostra vita riceva quel supplemento necessario per potere affrontare le difficoltà e avere un orizzonte adeguato, perché il significato pieno della vita dell’uomo sia raggiunto e ci appaia secondo tutto il suo spessore e la sua verità.

 

Vangelo. Giovanni 20,19-31

Data: domenica 30.04.2000

In queste domeniche fino a pentecoste la chiesa sollecita la nostra attenzione all’ascolto di coloro che sono stati testimoni della risurrezione di Cristo. La preoccupazione della Chiesa è di farci entrare in consonanza con coloro che per primi sono stati presenti e quindi testimoni di questo grande avvenimento. Oggi abbiamo la testimonianza che è accaduta la sera di Pasqua quando Gesù si è presentato nel cenacolo. Queste persone erano piene di paura, temevano per sé, per la loro vita nel presente e nel futuro e questa loro paura li aveva indotti a chiudersi dentro. Motivi di paura ne avevano tanti, perché la paura consiste nel timore di perdere qualcosa di buono. Se noi consideriamo che le realtà buone che abbiamo dal punto di vista fisico dal punto di vista affettivo, intellettuale, spirituale, i beni sono tanti, i motivi quindi di paura sono tantissimi. Se guardate in un ospedale vedete quanto numeroso sia l’insieme delle malattie che possiamo contrarre e quindi ciascuna è motivo di paura. Quindi l’uomo se considera la propria condizione di fragilità è oppresso dall’angoscia, dalla paura. Queste persone, considerando la loro condizione separata da Gesù Cristo, erano prigionieri della paura. Cristo si presenta a loro e nell’incontro c’è il passaggio dalla paura a “i discepoli gioirono”. Si apre l’orizzonte di possibilità di vita, di gioia, di serenità. Lo stesso fenomeno si presenta otto giorni dopo, questo segnare otto giorni dopo ha conseguenza poi nella storia della Chiesa. Anche Tommaso è una persona che ha paura, ma il suo modo di agire, di reagire, è aggressivo. Nelle sue parole c’è una aggressività nei confronti di Cristo perché ha costituito per lui fondamento prima di una grande speranza, poi di una grande delusione. Lui insiste per avere diverse prove, ma le diverse prove che chiede non sono altro che il bisogno di una ragionevolezza, il bisogno che la sua adesione adesione di fede sia sostenuta almeno da una serie di indizi. Solo che l’insieme di indizi non diventa mai una prova. La prova si ha quando Gesù incontra Tommaso. Nell’incontro c’è la risposta totale alla domanda, la risposta totale alla domanda di Tommaso genera poi in Tommaso una corrispondente adesione di tutta la sua persona. Questo passaggio dalla domanda alla accoglienza della risposta richiede una grande serenità, una grande onestà anche mentale, intellettuale nei confronti di Gesù Cristo, perché la nostra fede non è una caduta nell’assurdo, ma la nostra fede si muove con tutti gli elementi, i fattori di ragionevolezza, solo che da soli non siamo in grado alla fede perché è l’incontro con qualcuno, non è la risultante di un teorema. L’incontro con Gesù Cristo si ha quando Gesù Cristo viene incontro a noi. Cristo va incontro, prima nel cenacolo agli undici e poi successivamente va incontro a Tommaso e agli altri insieme. Quindi la fede cristiana di per sé richiede da parte dell’uomo la disponibilità all’incontro, la disponibilità alla ragionevolezza, la disponibilità alla riflessione, la disponibilità ad imparare, ad imparare sul serio e questo non è micca una cosa semplice, perché tanti sono stati gli anni in cui siamo andati a scuola, ma sono stati pochi gli insegnanti che ci hanno aiutato, educato, ad imparare sul serio e nella vita ciò che conta non sono tanto le singole informazioni, ma l’avere imparato ad imparare. Questo è importante perché ci indica come la serenità della persona, l’onestà mentale della persona sia accompagnata anche da un impegno della persona a voler accogliere e scoprire la verità fin dall’inizio del cristianesimo noi sappiamo che i cristiani si trovavano il giorno che poi ha preso il nome di domenica. Noi sappiamo che l’eucarestia è stata istituita il giovedì, sappiamo che il Signore è morto il venerdì, ma il giorno di festa dei cristiani è la domenica. È il giorno in cui Cristo è risorto. Quindi primariamente la domenica dei cristiani, la partecipazione alla messa dei cristiani, è una testimonianza di fede nella risurrezione di Gesù Cristo. Certo Gesù Cristo finchè viveva ha compiuto delle opere straordinarie, ma per risorgere da morto occorreva l’intervento di un altro. La risurrezione di Cristo è la testimonianza da parte di Dio padre che l’esistenza di Gesù Cristo gli appartiene totalmente. La risurrezione è il Padre che ha risuscitato Gesù Cristo da morto e quindi la risurrezione è per così dire la conferma da parte di Dio Padre che l’esistenza di Gesù Cristo rivela pienamente, totalmente i sentimenti, i pensieri, la realtà di Dio Padre. È importante avere presente questo perché così riusciamo a capire perché fin dalle origini anche nella testimonianza dei pagani, che si trattasse ad esempio di Plinio il Giovane il quale in Turchia diceva: “i cristiani sono soliti trovarsi al mattino all’alba del giorno che essi dicono del Signore. La parola domenica significa “giorno del Signore” così abbiamo altre testimonianze pagane che dicono:” i cristiani si trovano sia che siano di città sia che siano di campagna al mattino presto, all’alba, nel giorno del sole”. I romani chiamavano la domenica “il giorno del sole”. Questo è importante perché ci induce a pensare che nella coscienza cristiana la messa alla domenica è un’occasione che il Signore ci da per avere un incontro con lui. Perché quindi nella domenica riaccada in ciascuno di noi ciò che è accaduto negli apostoli pieni di paura ciò che è accaduto a Tommaso pieno di domande così che la nostra esistenza sia investita dalla potenza del Signore. Il fatto poi che nella fede cristiana noi accogliamo Dio come Padre, l’apostolo Giovanni ci indica che questa viva coscienza è il fondamento proprio della appartenenza reciproca della persona e quindi del senso della figliolanza e quindi della fraternità. Dalla coscienza di essere figli di Dio nasce la coscienza di essere fratelli. Non si può avere una fraternità, una solidarietà fraterna, se non per una appartenenza allo stesso Padre. Questo cambiamento del cuore viene sottolineato nel brano degli atti degli apostoli dell’evangelista Luca che ci dice il cambiamento di rapporti di Dio, che Dio ha stabilito con noi è all’origine dei nuovi rapporti tra le persone. questi nuovi rapporti fra le persone non sono altro che il manifestarsi nella rete sociale nel rapporto fra le persone di questa solidarietà di questo amore fondamentale che Cristo ha portato agli uomini. È stata sempre convinzione della Chiesa che la fede di per sé incide sulla rete dei rapporti umani. In altri termini è stata sempre convinzione della Chiesa che la fede cambia i rapporti sociali di qui viene la convinzione che esiste un insegnamento di rapporti sociali basati sulla fede, quella che viene chiamata la dottrina sociale della Chiesa. La dottrina sociale della Chiesa non è un trattato che sta in piedi da solo, razionale, ma è semplicemente la riflessione sulle implicanze della fede nell’esistenza cristiana. Chiediamo al Signore di darci una viva fede come capacità di accogliere la presenza del Signore vivente cosicchè accrescendosi in noi l’accoglienza di Dio come Padre, rivelato da Gesù Cristo venga ad adoperarsi anche fra di noi quell’unità di pensiero, di cuore, che è accaduto all’origine della esistenza dei cristiani nella storia.

 

Vangelo: Giovanni 20, 1-9

Data: Pasqua 23.04.2000

   Dicendo l’un l’altro “buona Pasqua” noi sappiamo di esprimere un sentimento buono e di desiderare per gli altri qualcosa di buono, ma qual è il contenuto buono di questa espressione? È il contenuto della parola Pasqua. Il contenuto della parola Pasqua risponde in fondo ad una domanda che è inscritta nell’esistenza dell’uomo: il desiderio di vivere, il desiderio che la vita abbia la sua pienezza. Solo che l’esperienza quotidiana che noi abbiamo sembra dimostrarci il contrario: la vita sorge, si sviluppa, raggiunge la sua maturità, poi comincia il viale del tramonto e c’è il grande silenzio. Noi abbiamo la esperienza di una vita che fluisce anche in maniera potente, ma poi, come un grande fiume, diventa una palude nella valle. Il fatto nuovo della Pasqua sta in questo: mentre noi abbiamo l’esperienza quotidiana del passaggio dalla vita alla morte, nella Pasqua abbiamo che il passaggio è, nella risurrezione, dalla morte alla vita, questo è il passaggio nuovo. Dove ci viene indicato che è vero ciò che noi sperimentiamo giorno dopo giorno, ma non è tutta la verità. Questo allora ci indica come l’ultima parola non sia il silenzio, non sia la morte, ma l’ultima parola è la vita. Il compimento quindi della nostra esistenza è la pienezza di vita, religiosamente parlando significa la salvezza. Dire pienezza di vita e salvezza è la stessa cosa. Non ci sorprende quindi come di fronte a questo avvenimento veramente unico, veramente la grande novità dell’esistenza umana, le persone che vi ci sono trovate siano rimaste, a seconda del temperamento, perplessi, diversamente perplessi e ciascuno reagisce di fronte l’avvenimento secondo la sua indole, il suo temperamento. Abbiamo qui all’inizio tre persone che in qualche modo si raccontano come è successa la loro esperienza, come hanno incontrato il fatto e come loro hanno reagito. Maria di Magdala, affezionata a Gesù Cristo, poiché non erano state compiute quelle espressioni di affetto, di devozione per il defunto Gesù Cristo, corre subito al mattino per poter provvedere a quell’espressione di pietà e presa dalla sua affezione, dalla sua istintività anche, di fronte alla tomba scoperchiata reagisce con istintività e risponde dicendo a sé stessa: “hanno portato via Gesù Cristo”, e di corsa, (indica questo la densità e la tensione che è in questa donna) va dai responsabili della comunità, Simon Pietro e gli altri discepoli. Anche Pietro e Giovanni corrono, per indicare quanto stesse a cuore la notizia, ma mentre Maria reagisce dicendo “l’hanno portato via”, Pietro vede che tutto è in ordine, le bende, la sindone in cui era avvolto Gesù Cristo, l’insieme dei pannolini che avevano posto sul volto intorno a Gesù Cristo sono piegati lì da parte, in ordine. Pietro guarda e dice: no, la risposta data da Maria che l’abbiano portato via, non è convincente, per cui questa non è la risposta. La tomba è vuota, ma il come troviamo la tomba dà da pensare. L’atteggiamento di Pietro è molto pratico, pian piano egli prende in considerazione i diversi elementi, i diversi fattori che sono presenti nella cosa. Giovanni invece ha un temperamento più mistico, religioso e vede già durante il corso della vita di Gesù Cristo la presenza di Dio Padre nella persona di Gesù Cristo e quindi il suo sguardo religioso fa vedere l’azione di Dio in ogni cosa in tutto ciò che accade, gli basta un piccolo sintomo, un piccolo indizio per collegarlo subito con la parola di Cristo, che aveva detto: “risorgerò, questo corpo il terzo giorno risorgerà”. Successivamente Maria di Magdala incontra personalmente Gesù Cristo che la chiama per nome, così anche Pietro incontrerà Gesù Cristo diverse volte, ed anche l’apostolo Giovanni, ma è importante che noi consideriamo come il fatto della risurrezione non sia dovuta ad una riflessione, pur essendoci l’urgenza dell’uomo a vivere; non è la domanda dell’uomo che crea la risurrezione è la risurrezione, come iniziativa di Dio, che risponde alla domanda dell’uomo; è diverso questo. Quindi si tratta di accogliere, per quanto grande sia la cosa, per quante perplessità possano sorgere, si tratta di accogliere un avvenimento non solo come fatto in sé stesso, ma nel suo significato. Nel suo significato per me, per la coscienza di vita e dell’insieme della creazione, perché allora vuol dire che Colui che ha creato il mondo, Colui che ha creato me e ciascuno di voi ha posto un destino, un destino buono per ciascuno di noi e quindi tutto l’essere fiorisce nella sua verità, nel suo compimento, come percorso di salvezza. Con la risurrezione di Gesù Cristo, per così dire, la grande diga (lo sviluppo completo delle persone vissute prima di Gesù Cristo), la grande diga è stata rotta e tutte queste persone hanno potuto raggiungere il grande mare dell’essere di Dio. Attraverso quindi la persona di Gesù Cristo noi veniamo posti nella pienezza dell’esistenza, per cui la morte stessa fa parte della vita, è un momento della vita e di conseguenza l’orizzonte nel quale il Signore ci ha posto è un orizzonte di per sé positivo, quindi che stimola il nostro sguardo e la coscienza di noi stessi a considerare tutto ciò che esiste, anche se presenta difficoltà, come segmenti di una storia buona. Una storia buona che per la potenza di Gesù Cristo, anche se noi veniamo meno tante volte, però riesce a raggiungere ciò che Dio Padre ha stabilito. La festa quindi della Pasqua è primariamente un invito ad un modo di vedere noi stessi e la realtà secondo la sconfinata bontà e misericordia di Dio e a vedere anche i nostri giorni, la semplicità dei nostri giorni e la piccolezza inserita nel grande disegno di Dio, che muove tutto ciò che esiste, la storia dell’umanità, affinchè raggiunga la sua gloria nella persona di nostro Signore Gesù Cristo.

 

Vangelo: Giovanni 12, 20-33
Data: domenica 09.04.2000

   All’inizio del vangelo due persone chiedono a Gesù: “dove abiti”, e Gesù risponde loro: “venite e vedete”. Queste sono state le prime persone del popolo ebreo che hanno conversato con Gesù e da quel giorno in poi si è diffusa, all’interno del popolo ebreo, come una rete di rapporti di persone che desideravano e hanno visto la persona di Gesù, ma c’è stato un altro momento poco prima della sua passione e morte in cui la cerchia si è allargata. Quella che sembrava una prerogativa esclusiva degli ebrei: di essere il popolo di Dio, ecco che non lo è più, viene rotto il cerchio e si diffonde senza confini l’insieme delle persone che desiderano vedere Gesù. Alcuni greci che erano a Gerusalemme dicono: “vogliamo vedere Gesù”. È forte questo “vogliamo”, non è solo “desideriamo” oppure “ho voglia di”, ma “ho intuito che c’è una persona che può rispondere a delle domande serie della mia persona”. Così vengono questi greci, inizio di tutti coloro che non appartengono al popolo ebreo,  iniziano a vedere la persona di Gesù. Di fronte alla domanda, poiché la domanda è seria, Gesù indica qual è il modo serio di guardare al lui. Nella vita di una persona c’è come un momento sintetico del significato di una persona, perché ciascuno di noi ha alcuni motivi che lo rattristano maggiormente o lo rendono lieto, molte sono le cose che facciamo in una giornata, o nel corso delle giornate, però ce ne sono alcune che esprimono maggiormente la profondità del nostro cuore: ciò che ci fa gioire o ciò che ci rattrista (se non esiste). Bene, Gesù dice loro: ”se voi volete vedermi, il momento decisivo della mia vita sta per accadere, il momento in cui si esprime la verità profonda in cui l’essere profondo della mia persona si rivela, si manifesta” , qui è il significato del termine gloria, gloria è la verità dell’essere di una persona che fiorisce e si manifesta, “dovete guardare il momento in cui io sarò sollevato  da terra e messo in croce”. Gesù indica il momento sintetico della sua esistenza, il momento in cui, sollevato sulla croce, rivela lo splendore dell’essere della sua persona. In tutto il vangelo di Giovanni la morte di Gesù sulla croce è l’inizio già della  gloria di Gesù Cristo. È per questo che ci sono dei crocifissi dove Gesù non è fiaccato dal dolore e dalla tristezza, ma Gesù Cristo è posto in croce con estrema forza, dignità, come uno che siede su un trono: rappresenta, secondo l’immagine dell’evangelista Giovanni, Gesù Cristo che regna sulla croce. Questo è ciò che ci induce a pensare, il vangelo che abbiamo letto oggi, di Gesù che rivela la pienezza del Padre, la pienezza di Dio, la verità profonda di Dio attraverso il suo servo, attraverso la persona di Gesù Cristo. Questo ci indica che la speculazione razionale non ci porta direttamente all’incontro con Dio, è necessario l’aspetto razionale, ma se noi vogliamo avere in qualche modo esperienza della via attraverso la quale il Signore ci fa percepire il suo volto, essa è il donare sé stessi. Uno conosce e uno realizza sé stesso e quindi pone in evidenza il suo essere nella storia della vita e nello stesso tempo incontra il Signore, quando compie un gesto di dono sincero di sé. Tante volte in noi il desiderio anche di avere esperienza di Dio, ma anche di conoscere Dio, o avvertire questa presenza del mistero della vita, è forte, talora può essere utile anche la risposta razionale, ma il più delle volte è importante ravvivare in noi il senso della presenza, del rispetto, dell’amore, dell’affezione nei riguardi delle persone, è come se quando in noi subentra la logica dell’attenzione all’altro, della cura dell’altro, si sviluppasse, si accendesse, come in un corto circuito, il senso della presenza di un altro, fosse il luogo della rivelazione di un altro, di quell’altro che poi è il maestro interiore della nostra persona, maestro che guida e accompagna la nostra persona affinchè la nostra esistenza sia il luogo in cui il confronto drammatico fra il bene e il male abbia una incidenza, su di noi, tale da operare qualcosa che va oltre l’istante presente. Dice Gesù che ogni uomo deve agire negando sé stesso, quindi spendendosi per gli altri affinchè nell’esistenza nel tempo ci siano dei germi di vita eterna. Noi siamo un po’ vittima del corto circuito del successo immediato, di ciò che si vede subito e con difficoltà riusciamo a rimandare di vedere i risultati nel tempo, solo che, c’è questo inconveniente che noi lavoriamo insieme a Dio e Dio  ha dei tempi diversi dai nostri, normalmente più lunghi e l’impazienza può essere la tentazione più grave nella persona che opera il bene, perché non vedendo il risultato la persona pensa che tutto ciò che ha compiuto non porti da nessuna parte. Questo mi veniva da pensare ad esempio in persone anche molto religiose, molto buone, anche in alcuni sacerdoti o suore che siano; via via che proseguono nella vita e sono anziani c’è come nel loro parlare l’asprezza che si prova quando si beve una limonata, rimane come un sapore aspro della vita ed è l’espressione di un’attesa che non ha trovato riscontro, un’attesa delusa, come se uno si aspettasse di vedere il risultato di qualcosa, invece Gesù ci dice che ciò che noi facciamo è per la vita eterna, è un investimento che noi facciamo che produrrà i suoi frutti solo in un tempo che va oltre il nostro tempo, oltre l’orizzonte di esperienza della nostra esistenza; quindi anche il valore di ciò che facciamo, i sacrifici che noi compiamo occorre che li rimettiamo nell’orizzonte della fede, altrimenti noi non riusciamo a capire, perché poi, nella maggioranza dei casi, il significato dei sacrifici che facciamo, delle fatiche che facciamo non è immediatamente percettibile nel suo valore. Questo è importante averlo presente, perché, come ci dice il profeta Geremia, il Signore stabilisce con ciascuno di noi un’alleanza, il che significa è il Signore stesso che considera il luogo dell’esistenza di ciascuno di noi: ”scriverò nel loro animo, scriverò nel loro cuore”, nel luogo in cui c’è la libertà della persona, “la legge del Signore”, per cui il luogo drammatico dove c’è la scelta del bene e del male, è la persona. In ogni persona si svolge il dramma della lotta fra il bene e il male, fra la forza del vivere e la forza distruttiva del morire. Il Signore quindi desidera che ciascuno di noi coltivi in se stesso il “voglio vedere il volto di Cristo, voglio vedere il tessuto fondamentale che regge e dà il significato a tutto ciò che esiste”. Questo deve essere ben fermo, una volontà ben ferma, che è poi in grado di farci compiere anche il sacrificio sul momento, anche se non vediamo il risultato, sapendo che ciò che il nostro Signore ci dice è si doloroso, come è doloroso il momento di Cristo nella sua passione e morte, ma Cristo segue la realizzazione di un progetto la cui realizzazione dipende dalla volontà di un altro. L’esistenza quindi di ciascuno di noi non può essere colta pienamente nel suo significato da noi, ma occorre che noi affidiamo il progetto della nostra vita ad un altro così che impariamo, attraverso l’ubbidienza, che cosa significhi entrare a far parte del progetto di Dio, della grande storia di salvezza che comprende le nostre persone, le persone che amiamo e tutti coloro che ci hanno preceduto nel tempo e ci seguiranno nel corso della storia. Chiediamo al Signore di darci questo sguardo lungimirante, in modo tale che in noi l’impazienza non abbia a prevalere, ma in ciascuno di noi il volto del Signore sia di sostegno specialmente nei momenti in cui ci sentiamo soli, ci sentiamo stanchi e, in una certa misura, delusi del corso della vita

 

Vangelo: Giovanni 3, 14-21

Data: domenica 02 aprile 2000

   C’è una parola che ricorre nel brano evangelico ed è la parola “Giudizio”. Questa parola indica l’atteggiamento di Dio nei nostri confronti. Appena noi sentiamo questa parola ci viene alla mente l’immagine del giudizio universale di Michelangelo, eppure se confrontiamo quell’immagine con ciò che Gesù dice notiamo che non c’è assoluta corrispondenza, assolutamente non corrisponde, anche perché l’immagine presentata da Michelangelo risente molto del movimento storico della controriforma, a parte i problemi personali che egli aveva, dubbi angosciosi di coscienza. Gesù ci viene a chiarire come Dio non sia il giustiziere. Dio è Colui che ha la preoccupazione di amare l’uomo e ha la preoccupazione che l’uomo, con la sua coscienza, si apra alla accoglienza della vita, poiché Dio è la vita. Il luogo del giudizio, del discernimento, del venire alla luce della verità è fondamentalmente la coscienza della persona. Il luogo, quindi, del chiarimento o se volete del giudizio, per osservare questa parola, “sei tu”. Ciascuno di noi ha la capacità di ascoltare se il proprio modo di vivere è in armonia, corrisponde, con la realtà dell’essere profondo di se stesso. L’opera del Signore in che cosa consiste? Consiste nell’agire sull’uomo affinchè l’uomo abbia la forza, la capacità, di guardare a se stesso, perché e una tendenza dell’uomo, quella di essere invaso dall’angoscia, dalla paura e per evitare l’angoscia e la paura l’uomo, di per se, istintivamente, tende a coprire ciò che non va bene. Il Signore interviene affinchè la ferita non sia coperta, perché entra in suppurazione, ma la ferita sia a vista e l’uomo si renda conto che ciò che sta facendo, il suo modo di vivere, non corrisponde alla verità del suo essere, non c’è corrispondenza, per cui i gesti non sono l’espressione della verità della persona, ma sono una sovrapposizione, una imitazione, una deformazione dell’essere vero dell’uomo. Quindi Dio agisce nell’uomo affinchè l’uomo ritrovi se stesso, ed abbia lo sguardo capace di potere portare a livello di coscienza esplicita ciò che è anche nel suo profondo o nella zona di penombra. L’uomo quindi è il luogo dove Dio agisce, con la potenza dell’amore, affinchè l’uomo accolga sè stesso. Ricevere da Dio la luce è l’inizio del percorso di verità della vita della persona. Dio quindi ha mandato suo figlio, Gesù Cristo, non per giudicare nel senso di fare giustizia nel mondo, ma affinchè gli uomini siano aiutati, siano sostenuti nel cammino di verità della loro vita. L’apostolo Paolo ci dice che questo progetto di Dio non si è attuato una volta per sempre e poi Dio ha abbandonato il suo progetto, ma ciascuno di noi è opera di Dio e ciascuno di noi è stato creato in Cristo, per le opere buone che Dio ha predisposto. La visione che noi dobbiamo avere della nostra vita quotidiana non è quella di essere immersi nel mondo della natura, dove la legge fondamentale è la legge della necessità, della obbligatorietà, ma ciascuno di noi inizia la sua giornata accogliendola dal Signore e accogliendo di fare quelle azioni che il Signore stesso ha predisposto perché noi le praticassimo, dove la giornata è l’accoglienza della proposta del Signore, proposta fatta alla nostra libertà, affinchè l’adesione del nostro cuore si realizzi, anche nella fatica, però per amore di qualcuno. Noi accogliamo giorno dopo giorno le cose che sono da fare perché sono state predisposte dal nostro Signore. Quante cose dobbiamo fare dal mattino. Le abbiamo fatte anche stamattina perché bisognava farle, ma non può essere l’ultima parola significativa dell’uomo questa necessità, questo “bisogna farlo”, perché l’uomo non può vivere e compiere gesti veramente umani sotto l’urgenza della semplice necessità, della naturalità, ma occorre che l’0agire dell’uomo sia determinato fondamentalmente dalla libertà, libertà come adesione ad una realtà buona e, anche se è faticosa, noi accogliamo la nostra vita quotidiana come realtà buona, perché le diverse cose sono state predisposte dal nostro Dio perché le pratichiamo. Quindi il nostro esistere quotidiano è continuamente un accogliere dalla mano del Signore ciò che egli ha predisposto per noi. Si capisce, non qualsiasi cosa, ma ciò che la nostra coscienza, illuminata dalla parola del Signore, dalla presenza del Signore in noi stessi, ciò che la parola del Signore ci indica come realtà buona. Occorre che noi consideriamo che non esiste situazione, per quanto disperata, che non sia ricuperabile dal Signore, comunque sia, anche la nostra devianza, il nostro allontanamento. La prima lettura ci indica come il popolo ebreo non solo, per un certo periodo, non ascoltasse la parola del Signore, ma la metteva in ridicolo, e quindi gli toglieva ogni potenza, ogni energia rinnovatrice. La conclusione è: “non c’è rimedio”. Il Signore vediamo che non interviene in modo energico subito, il Signore lascia correre il tempo, ma poi dopo, nel lasciare correre il tempo, l’uomo subisce le conseguenze delle sue azioni. Non è che Dio si preoccupi di punire l’uomo, è l’uomo stesso che deviando va incontro ad una condizione di non libertà e di schiavitù. Il popolo ebreo viene deportato e fatto schiavo in Babilonia per settant’anni. In questo periodo c’è il risveglio di un’appartenenza, il risveglio quindi di una libertà. Di qui il bellissimo salmo che abbiamo letto nella parte iniziale. Risveglio della coscienza come appartenenza a qualcuno e quindi come principio di identità, come appartenenza ad una storia: “sui fiumi di Babilonia là sedevamo piangendo al ricordo di Sion”, nel ricordo di un’appartenenza a qualcuno, ad una storia, che è il principio della nostra identità. Il messaggio allora sul quale siamo invitati a riflettere è “il volto luminoso di Dio”: accettare senza timore che la luce di Dio spazi liberamente all’interno della coscienza di noi stessi, anche nelle penombre che noi da soli non saremmo in grado di poter vedere, in modo tale che la sua potenza risanatrice vinca su ogni nostro timore e così noi accogliamo la presenza del Signore, che ha mandato suo figlio affinchè  ogni uomo sia salvo, affinchè tutti gli uomini siano salvi e per questo Dio, per dimostrare il suo amore, ha mandato il suo figlio, che è stato ucciso per la salvezza degli uomini.

 

Vangelo: Giovanni 2, 13-25

Data: domenica 26.03.2000

In questo periodo di preparazione alla Pasqua, periodo dedicato alla Chiesa affinché in noi si ravvivi il senso religioso e la forma di esistenza cristiana, noi veniamo invitati, sollecitati dalla Chiesa, a riflettere sull’origine e sul dinamismo della vita cristiana. Come ha inizio la forma di esistenza dell’uomo di fede? Lo troviamo indicato bene nella prima lettura dove Dio dice: “Io ti ho fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione di schiavitù, e tu devi riconoscere che Io sono Colui che ti ha liberato, sono Colui che ti ha salvato”. Dio, quindi, dice chi è Lui indicando le azioni che compie. Chi ha ricevuto le azioni di Dio a proprio beneficio è invitato a rispondere in modo adeguato, perché dal come Dio tratta le persone indica qual è il valore di queste persone innanzi ai suoi occhi. Le persone quindi sono sollecitate ad avere un comportamento che sia corrispondente, che sia adeguato, allo sguardo che il Signore ha nei loro confronti. Noi riconosciamo e conosciamo tutti dal catechismo i comandamenti di Dio, o almeno un giorno li sapevamo, ma l’inizio non sono i comandamenti, l’inizio è il comportamento di Dio nei confronti delle persone. Le persone sono sollecitate a rispondere al comportamento di Dio in modo corrispondente, per cui i dieci comandamenti o le dieci parole, non sono altro che la forma di comportamento dell’uomo che ha ricevuto e ha accolto nella sua libertà l’iniziativa di Dio. Chi è Dio? Dio è colui che libera. Chi è l’uomo di Dio? È la persona che segue questo comportamento indicato dai dieci comandamenti. È importante che noi lo sappiamo questo, perché all’origine del comportamento non sta l’imperativo, ma sta l’accoglienza di un’affezione di una persona. Ciò che è originario è il seguire una persona che ha rivelato il tuo volto, che ha rivelato il tuo valore. È per questo che nei comandamenti abbiamo che i primi tre indicano chiaramente chi è Dio, come si è manifestato nella sua azione e successivamente viene indicato il comportamento dell’uomo che è stato oggetto dell’attenzione di Dio. Questo è molto importante, perché all’origine del nostro comportamento non sta un “io voglio”, perché ,allora, se non riusciamo cadiamo nella disperazione ma se riusciamo diventa peggio, perché abbiamo la presunzione di costruire un monumento a noi stessi, tendiamo a chiudere noi stessi nella nostra autosufficienza, invece ciò che rende vivace e sviluppa le capacità dell’uomo è il fare memoria di qualcuno che attraverso i suoi gesti attraverso il suo modo di agire, attraverso il suo comportamento induce in te un comportamento adeguato, corrispondente. Per cui l’uomo col suo comportamento risponde ad una domanda, ad una domanda che è in termini reali di azione. Questa impostazione che era nel popolo ebreo viene tale e quale trasferita, come metodo, come dinamica di comportamento, anche nell’esistenza cristiana. Non per nulla, se voi notate il Vangelo di Marco presenta una parte grandissima dello scritto, dedicata alla passione e morte di Gesù. Qual è il motivo per cui è dedicata metà del Vangelo ai pochi giorni della passione e morte di Gesù. Questo non è per un gusto del cristiano, gusto un po’ sadico, di prendere in considerazione le torture e le sofferenze di Gesù Cristo, ma perché il cristiano sia indotto a riflettere questo modo di agire, ciò che Gesù ha subito, ha accolto liberamente, lo ha fatto per me. Quindi la meditazione, la riflessione, su ciò che Gesù Cristo ha fatto per me diventa il fondamento di un comportamento di un amore che risponde ad un altro amore. Per cui è nella logica dell’amore il comportamento del cristiano, ma all’origine del comportamento del cristiano sta l’azione di Dio nei suoi confronti. Nella riflessione, quindi, sulla passione e morte di cristo, ma poi soprattutto sulla vita di Cristo che dice: “Dio ha tanto amato gli uomini”, invece di mettere “gli uomini”, perché ciascuno di noi non mette il suo nome? La frase è ugualmente vera in tutta la sua pienezza: “Egli ha dato sé stesso per me”. Per cui la riflessione sull’iniziativa di Dio diventa il fondamento di un comportamento adeguato nella misura in cui io sono capace di accogliere l’iniziativa di Dio e quanto più la persona risponde, tanto più gli si rivela il volto di Dio e quanto più la persona, per dono di Dio, risponde, sente e avverte nella propria esistenza l’esperienza della verità della forma di vita che conduce. Per cui la vita dell’uomo religioso, la vita dell’uomo che segue Gesù Cristo indipendentemente dal ritmo di sequela che ha, indipendentemente dal cammino fatto, è una persona che segue un amore e il fatto di seguire la logica dell’amore lo trasferisce di per sé già nello spazio della salvezza. Il seguire Cristo è il dato fondamentale, decisivo, della salvezza. Che conoscano Gesù Cristo, che conoscano il Padre, questa è la condizione della salvezza. Propriamente parlando, non esistono dei livelli di santità nell’ordine cristiano, esiste solo la condizione dell’essere discepolo di Gesù cristo. Chi è discepolo di Gesù cristo non deve rattristarsi eccessivamente se trascina con se le mancanze, perché Gesù Cristo sceglie le persone e le prende così come sono affinchè la forza del suo amore li trasformi secondo il progetto del Padre. Riflettiamo molto, quindi, specialmente nei momenti di tristezza, nei momenti di smarrimento, sul come si possa riprendere vigore e la nostra vita di nuovo riacquisti tutta la potenza e la forza: ricordiamo, facciamo memoria di ciò che Cristo ha fatto, e ha fatto per noi, così che il volto di Cristo diventi luminoso, e noi diventiamo capaci di specchiarci nel suo volto e il nostro volto sia come il riverbero del volto di Cristo che determina in noi una corretta coscienza di noi stessi. Chiediamo al Signore, specialmente in questo periodo, di renderci capaci di accogliere la sua azione, in modo tale che il suo comportamento induca in noi un comportamento, per quanto è possibile, adeguato alla forma di esistenza alla quale egli ci ha chiamato.

 

Vangelo: Marco 9, 2-10
Data: domenica 19.03.2000

Nella vita quotidiana, abbiamo l’alternarsi del tempo: del tempo della luce e del tempo del buio o assenza della luce. Nei momenti in cui la luce splende noi sappiamo riconoscere la fisionomia delle cose, il loro colore e ci muoviamo in modo agevole. Quando invece viene meno la luce ecco che le cose restano come sepolte in una indeterminatezza ed il muoversi è sempre molto incerto. Accade così anche nella vita nostra: ci sono dei momenti, dei periodi, in cui noi abbiamo viva coscienza di noi stessi: sappiamo chi siamo, cosa vogliamo, quali sono i nostri progetti, quale può essere ragionevolmente il nostro futuro, quali sono i volti delle persone che costituiscono lo spazio umano in cui la nostra persona respira. A questi momenti di lucidità subentrano di frequente momenti di grande indecisione. Il volto di coloro che era evidentemente luminoso per noi e noi eravamo veramente di fronte a loro illuminati dal loro volto, dalla loro attenzione, così che il nostro io viveva alla loro presenza, questo sguardo vediamo che si fa distratto. Non muove più la profondità della nostra persona, come risveglio dell’esserci in questo mondo. E così subentra anche il dubbio sulla reale consistenza dell’affetto che le persone talora dicono di avere per noi. Questo è un momento molto grave, perché non è tanto un problema esterno a noi, ma è l’io profondo della nostra persona che sta saggiando la sua consistenza e trova che non è sicuro il punto di appoggio. Ciò che accade nella nostra vita di relazione, accade anche nel nostro rapporto con Dio. Ci sono dei momenti di luminosità e ci sono dei momenti in cui si sottrae il volto del Signore e noi rimaniamo molto perplessi, nella indeterminatezza. Questo è accaduto anche nell’esperienza umana, nell’incontro con la forma umana del nostro Dio, nella persona di Gesù Cristo. C’è stato un momento in cui la verità profonda che il vangelo dice “gloria”, la verità profonda della persona di Cristo si è manifestata ai discepoli e la sua persona è diventata un momento sintetico, conclusivo, pieno di tutta la storia del popolo ebreo rappresentata dal profeta Elia e da Mosè, colui che ha dato le istituzioni fondamentali al popolo ebreo. Verranno i giorni in cui il volto di Cristo non splenderà più e sarà coperto di fango e di sangue, verrà il momento in cui i discepoli saranno presi dalla paura e dovranno andare e Pietro, Giacomo e Giovanni, in un secondo momento si ricorderanno di questo momento luminoso. Il momento di lucidità sia per quanto riguarda la nostra persona, sia le altre persone, è momento necessario, affinché il percorso della nostra esistenza sia sostenuto, perché il camminare, l’esplorazione della vita comporta di per sé un continuo passaggio e quindi un continuo rischio. Può intervenire anche il dubbio, se il dubbio passa, allora stimola la domanda dell’intelligenza, perché la domanda dell’intelligenza, il perché, tante volte è la forma di preghiera dell’intelligenza. Quando noi ci assopiamo, ci rassegniamo, allora noi dormiamo e l’intelligenza non è risvegliata nel cammino verso la verità, verso il volto di Dio. E così la persona di Gesù si manifesta e questa manifestazione prende il nome di trasfigurazione, un vedere in profondità. Uno sguardo che ha cura e si prende cura di tutto l’essere dell’altro. Anche nel matrimonio questo accade, la forma comincia così: “io prendo te…”, io e la tua persona. Indubbiamente, perché questo si possa dire e fare, si richiede che lo splendore dell’essere, la gloria della persona con la quale unisci il tuo destino, ti si sia manifestato. Perché una decisione del genere non può aversi se non attraverso una rivelazione profonda dell’essere e quindi del destino della persona. Ecco che la domanda che noi dobbiamo porci è questa: “Ho cura affinché il mio sguardo sulle persone che mi sono accanto sia uno sguardo che scende in profondità, specialmente in un’epoca come la nostra dove la superficialità è la dominante, l’apparenza, il vestito, al massimo la pelle, ma non di più. Solo che questi livelli non si possono neanche considerare di riflessione, sono semplicemente di impressione e come ogni impressione tende ad essere spazzata via da un’altra impressione. E così la successione delle impressioni genera uno stato d’animo della vita: un inutile successione di passioni e di emozioni dove ognuna brucia l’altra.Gesù si è manifestato affinché i suoi amici fossero capaci di sopportare l’urto della prova, l’urto della sofferenza, l’urto dell’abbandono, perché il Signore ci dice, nel primo brano del servo di Dio Abramo, che ogni uomo, dovendo esplorare la propria esistenza, dovendo giocare la propria vita attraverso la libertà, è in un rischio continuo. Per l’uomo non c’è pace, intesa come mancanza di pensieri o come mancanza di esplorazione dell’esistenza. L’uomo, poiché deve agire con libertà, e quindi con assunzione di responsabilità, non può dormire su se stesso. È per questo che l’uomo ha bisogno di essere illuminato, ha bisogno di un supplemento di luce. In fondo la fede è questo supplemento di luce, affinché la nostra intelligenza riesca ad esplorare con verità la profondità della cose. La fede è quindi un supplemento che aiuta il nostro intelletto, affinché sappia permanere in quello sguardo profondo delle cose, dove le cose hanno la possibilità di una trasfigurazione, di manifestarsi pienamente in se stesse.Questo sguardo è particolarmente importante con le persone che amiamo e con le persone che ci amano, perché talora la convivenza, il vivere quotidianamente insieme, tende a rendere opaco il volto di chi ci sta di fronte. E questo è un inconveniente, perché come contraccolpo determina una insicurezza, determina una mancanza di vivacità, di un “adesso ci sono”, del nostro esistere. E quindi, anche se siamo egoisti, occorre che noi abbiamo nei confronti di chi ci è accanto, quella profondità di sguardo di chi si prende cura dell’altro e sente che il proprio destino è legato al destino dell’altra persona.Vivere insieme comporta di per sé che noi facciamo memoria della lucidità profonda dello sguardo sul volto della persona, sulla vita della persona, affinché il vivere insieme costituisca quella storia buona che determina per noi il compimento del nostro esistere.

 

Vangelo: Marco 1, 12-15

Data: domenica 12.03.2000

   Due sono le espressioni che la Chiesa indica al sacerdote di dire mentre pone le ceneri sul capo dei fedeli. Una dice: “ricordati uomo che sei polvere e in polvere ritornerai”, l’altra, quella che abbiamo detto: “convertitevi e credete al Vangelo”. La Chiesa è preoccupata di noi, di noi che non abbiamo abbastanza stima di noi stessi, che non valutiamo abbastanza il valore della nostra persona e richiama la nostra attenzione su quell’io profondo, sulla verità della nostra persona che tende ad essere sommersa da una quantità di problemi che ci sovrastano da tutte le parti. Infatti, pensate anche in queste poche ore del mattino, se non abbiamo un pensiero ne abbiamo due. Abbiamo che  la nostra persona è continuamente assediata da urgenze a cui rispondere, urgenze che continuamente ci assediano e proiettano la nostra attenzione e il nostro agire al di fuori di noi stessi. La Chiesa ci dice: “molte cose sono da fare, però ciò che è più importante sei “tu”, è la realtà della tua persona e quindi prova di avere un po’ più cura di te, nella profondità dell’io della tua persona, in ciò che costituisce la verità della tua persona”. Tenendo presente che ciascuno di noi facilmente oscilla fra l’euforia sconsiderata e la depressione, occorre che trovi una unità di misura che non sia tanto variabile. Il cristiano è colui che guarda Cristo come unità di misura permanente. Guardare a Cristo, quindi, e accogliere su di sé la riflessione e anche lo sguardo è compito primario del cristiano. Domanda: “qual è il valore della nostra persona?”, la risposta è: “qual è il prezzo che Cristo ha pagato?”. La vita di ciascuno di noi vale la vita di Cristo. Quindi ciascuno di noi ha un grandissimo valore. Dobbiamo svincolarci dalle impressioni, ma anche da ciò che la gente dice attorno a noi. Dobbiamo prendere poco in considerazione il mondo della chiacchiera, perché è di una variabilità impressionante. Si aggregano i discorsi, le parole, in un modo o in un altro come si aggregano le nubi del cielo e si disgregano facilmente, tenendo presente che c’è come un mania distruttiva. Almeno, una volta, nei confronti dei morti c’era una specie di pietas, per cui una persona che era morta, che fosse “Luigi” oppure che fosse “Francesco”, si diceva sempre “il povero…” che era una tenerezza dell’animo nei confronti di chi aveva perduto la vita. Ora, invece, è molto facile sentire negli incontri, anche negli incontri fra i preti, che il ricordo delle persone defunte si appunta primariamente sui loro difetti e questo genera una grandissima tristezza. Se per caso qualcuno avesse l’idea che la memoria di sé sarà su ciò che di meglio ha compiuto basta che ascolti un momento qual è il mondo della chiacchiera e l’illusione gli va via subito. L’esortazione e la preoccupazione della Chiesa, quindi,  è che ciascuno di noi prenda cura del nucleo veritiero di sé e viva il suo tempo riferendosi ad una unità di misura, il volto di Cristo, ascoltando la sua parola, meditando e soprattutto esercitandosi nella capacità dell’ascoltare. Veniamo anche talora educati a parlare, ma non veniamo educati ad ascoltare e invece il significato della parola ha la sua origine nell’ascolto, la parola sensata nasce da un ascolto, da un confronto, perché la parola diventi in un certo qual modo un giudizio, un mettere in luce la verità. Ciò che ciascuno di noi fa, con piena avvertenza e deliberato consenso, come corrispondente al valore della propria persona, oppure che è indegno della propria persona, accade anche complessivamente nella chiesa. In fondo il peccato è un pensiero o un’azione che è indegna di “te”. Occorre avere un giudizio di valore della propria persona, per affinare la sensibilità di coscienza. L’unità di misura della persona cristiana è sempre Gesù Cristo, l’unità di misura della Chiesa, nella sua complessità, nei tempi, nei secoli è Gesù Cristo: è sempre la stessa unità di misura. Il Vangelo è il luogo che misura ogni momento della vita della Chiesa. Questo ci permette di capire come, fatto veramente singolare in questa giornata, il Papa chieda perdono a Gesù Cristo dei momenti o delle fasi in cui l’esistenza della Chiesa non era corrispondente, o non è corrispondente, con il messaggio evangelico. Questo indica due cose: come esiste una continuità nel tempo dello stesso soggetto, della persona, così via via che trascorrono le generazioni e passano i secoli, è come una mistica persona la Chiesa in cui il soggetto principale, portante è la stessa persona di Gesù Cristo. La sostanza della Chiesa, l’anima della Chiesa, come è l’anima della persona è la persona di Gesù Cristo. È Gesù Cristo, nella continuità del tempo colui che permane come origine, colui che dà fisionomia alla sua Chiesa, i cristiani quindi sono il volto esterno di Cristo. La Chiesa non è altro che la fisionomia che Cristo acquista via via che trascorre il tempo, e come ciascuno di noi nella sua unicità deve chiedere perdono al Signore del peccato perché, il peccato, non è un errore, il peccato è: “so qual è la verità, so qual è il bene e non lo faccio o faccio un’altra cosa. Ricordate che il peccato occorre che perché sia compiuto sia tutto mio, un investimento della mia persona fatta quindi con piena avvertenza:”so quello che faccio” e deliberato consenso: “e lo faccio liberamente”. Il fatto che nella Chiesa ci siano dei momenti in cui non risplende il volto di Cristo è reale, anche se ci sono delle persone che non lo vedono mai. Se noi confrontiamo il Vangelo, lo spirito del Vangelo, con alcuni periodi come quello del rinascimento, o con alcune fasi del medioevo, vediamo che non c’era mica tanto spirito evangelico, almeno dal come è l’esterno, non giudichiamo il cuore delle persone, però il volto di Cristo appariva molto difficilmente. È vero che durante l’umanesimo e il rinascimento, nel ‘400, ‘500, la Chiesa era in stato di schiavitù, perché le cosiddette famiglie nobili di Roma avevano occupato il pontificato, questo è vero, ma la Chiesa allora era in condizione di schiavitù e quindi non possiamo attribuire immediatamente alla coscienza ciò che invece è prepotenza di alcune persone nei confronti del volto di Cristo che è la Chiesa. Dall’altra parte, quindi, occorre che noi abbiamo nei confronti della Chiesa l’affezione che abbiamo per la nostra famiglia, come il luogo nel quale acquista pieno significato il respiro della nostra vita. Chiediamo al Signore che, specialmente durante questo periodo di quaresima, si riveli a noi con la pienezza e lo splendore del volto, così che sia pienamente illuminato il nostro volto, così che avendo piena coscienza del valore della nostra persona diventiamo anche più sensibili nei confronti di ciò che oscura la verità dell’essere, del nostro io, della nostra persona, e chiediamo al Signore che perdoni la sua Chiesa, in ciò che ha compiuto come venir meno all’insegnamento del vangelo, in modo tale che di generazione in generazione, sia ciò che è giusto, sia ciò che è vero venga trasmesso secondo il desiderio di Cristo, secondo la volontà di Cristo che ha dato tutto se stesso, affinché nel mondo ci fosse brillante, evidente, incidente su tutto e su tutti la misericordia di Dio, così che l’amore di Dio si manifestasse in tutto e in tutti.

 

Vangelo: Marco 2.23  3.6

Data: domenica 5.03.2000

   Siamo appena nel secondo capitolo del Vangelo di Marco e già la tensione è altissima. Gesù è un sorvegliato speciale, da prendere in considerazione, perché su di lui incombe già la minaccia della morte. La posta in gioco è la vita. Noi rimaniamo un po’ sorpresi, perché l’oggetto della discussione non ci sembra così importante, così rilevante, ma c’è veramente il cozzo di due mentalità. Anche Gesù ha un atteggiamento molto duro: “essi tacevano e guardandoli tutt’intorno con indignazione…”, notate lo sguardo di Gesù che fissa ogni persona con tutta una carica aggressiva nei loro confronti. C’è lo scontro di due mentalità. C’è la mentalità di chi considera l’esistenza umana come l’ubbidienza ad un “tu devi”, quindi una concezione della vita che è soggetta al dominio della legge: “Tu devi”. In questo caso è: “Tu devi non lavorare nel giorno del Signore”. Solo che questo è un concetto negativo, il giorno del Signore è una realtà di non lavoro, quindi di passività, negatività, dove l’aspetto positivo è l’uomo che lavora, l’uomo che con le sue mani da un significato al tempo e il Signore improvvisamente interviene e stabilisce nel corso della vita dell’uomo questo buco nero, che sarebbe il giorno festivo. Quindi ne viene anche una concezione dell’uomo che dispone di sé e della propria vita e Dio che interviene e, in qualche modo, entra in conflitto con l’uomo. Gesù dice che le cose non stanno così. C’è un modo di agire che, di fatto, devia quello che dovrebbe essere un gesto religioso in un gesto che praticamente afferma il valore solo delle opere delle mani dell’uomo, solo l’opera dell’uomo. Gesù dice loro che l’uomo deve seguire l’indicazione data da Dio, ma cogliendone il significato: allora il punto di confronto non è il “tu devi”, ma “la legge quale valore afferma?”,perché la legge è al servizio del valore, e il valore massimo che esiste all’interno di questo mondo è l’uomo. L’affermazione, allora, diventa: “la legge che aiuta l’uomo a vivere realizza il motivo, la legge invece che non aiuta l’uomo a vivere non ha motivo di esistere”, notate il conflitto che viene. Gesù dice che il comportamento dell’uomo deve essere quello di chi sa di vivere all’interno di un mondo che è stato posto nell’essere e ordinato dal suo Dio, per cui l’uomo, primariamente non si trova a vivere in un caos, non si trova a vivere come in un magazzino dove le cose sono buttate là in modo “purché sia”, ma si trova a vivere in una realtà, il mondo della creazione, dove esiste già un ordine oggettivo delle cose, di cui l’uomo deve prendere coscienza e prendere in considerazione. L’uomo non può fare qualsiasi cosa. Prima di tutto l’uomo deve avere una concezione di sé come “essere” posto all’interno di un orizzonte significativo. L’altro termine per cui è stato istituito il sabato è quello del celebrare la liberazione operata da Dio nei riguardi del suo popolo, per cui l’uomo, durante questo giorno, da una parte è invitato a prendere una lucida coscienza di sé all’interno di un orizzonte umano pieno di significato. Il tempo dell’uomo è inserito in una storia di liberazione, per cui il giorno festivo è primariamente il luogo in cui l’uomo pensa se stesso, pensa alla propria visione del mondo e quindi acuisce la verità dell’intelligenza. È un tempo nel quale l’uomo fa esperienza della sua libertà, libertà come capacità di aderire a ciò che è giusto, ciò che è buono e quindi ad entrare in azione precisamente come ha operato il proprio Dio. Come Dio ha liberato il suo popolo e ha operato con misericordia, con amore verso questi poveretti che avevano perduto tutto, così l’uomo religioso nel giorno festivo occorre che abbia questo sguardo di amore e di compassione nei riguardi di tutte le persone che incontra e che vede. Altro che buco nero nel tempo dell’esistenza umana, ma tempo concepito come una specie di grande cattedrale, una basilica dove l’uomo attraverso il suo agire imprime un significato religioso alla propria esistenza, come luogo in cui abita il suo Signore. Questo deve investire tutti gli aspetti della vita, infatti dice:”ogni altra attività che tu possa fare al di fuori di questa crescita nella conoscenza della verità e nella libertà deve essere lasciato cadere, per cui tu non devi fare nessun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né, notate, il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna bestia; dove è l’uomo che vive con questa coscienza di libertà all’interno di tutto il mondo. Il giorno del Sabato, il giorno festivo, è primariamente il giorno in cui l’uomo mette a fuoco dell’attenzione se stesso, non le proprie attività, ma se stesso, il principio di organizzazione del proprio volto, del proprio io, di quella realtà profonda che se l’uomo non è seriamente richiamato tende a perdere, perché tende a perdere se stesso, la coscienza di sé. Ecco allora, Gesù di fronte a coloro che vogliono affermare che il momento religioso è il momento del non, dice che non è vero, che è precisamente il contrario, perché il momento religioso è il momento in cui l’uomo, in qualche modo è colui che imita il suo Dio e il nostro Dio dalla creazione in poi è in Gesù Cristo colui che opera sempre. Il significato del giorno religioso è primariamente quello del giorno nel quale l’uomo pone al centro della propria osservazione, della propria riflessione la propria esistenza e il suo significato. In questo modo, quindi, Gesù indica che l’uomo non deve avere un atteggiamento di aggressività e di prepotenza nei confronti del mondo, anche della natura, perché esiste già un certo ordine nel mondo della natura, che l’uomo deve rispettare. L’uomo ha già un destino di libertà al quale deve essere docile, quindi l’uomo deve riconoscere i limiti della propria esistenza, allora il significato della domenica, una volta impostato il problema in questo modo, risulta di per se evidente. L’uomo fa fatica, perché è molto più facile riconoscere il valore delle proprie azioni che riconoscere i propri limiti. Dice un Padre del Deserto, in modo un po’ paradossale: “è molto più facile vedere gli angeli che vedere i propri difetti”, questo perché è nella natura dell’uomo stesso di avere paura del proprio limite, ma il Signore invece ci invita ad accogliere la propria condizione illuminata dalla sua misericordia e dal suo amore, per cui l’uomo non deve avere paura di accogliere i propri limiti, perché nella misura in cui riconosce la propria esistenza bisognosa, sale dal cuore dell’uomo l’invocazione, il grido di aiuto, e Dio nella sua infinita bontà e misericordia si china sull’uomo e lo rende partecipe della propria esistenza. Chiediamo al Signore che ci dia questo sguardo sul significato del tempo, come edificazione del grande tempio, così che il nostro tempo diventi, via via che si svolgono i giorni, il tempio nel quale Dio opera ed è presente e diventi il luogo della rivelazione, della manifestazione del suo esserci a noi e alle persone che vivono con noi.


Vangelo: Marco 2.18-22

Data: domenica 27.02.2000

   L’essere umano è continuamente proteso verso il “di più”. Il “di più” di verità, il “di più” di bene, il “di più” di beni. È come un uomo in cammino, che ha un piede a terra e l’altro in alto, sospeso per il passo successivo. Il desiderio dell’uomo di raggiungere la verità o di camminare verso la verità e il bene, questo cammino dell’uomo, questa urgenza, indica che l’assoluto può essere la risposta adeguata, ed è per questo che l’uomo cerca in qualche modo di incontrare Dio. L’urgenza di incontrare Dio è, propriamente, l’urgenza della presenza, dell’intelligenza e della libertà nell’uomo. Finché c’è intelligenza e libertà nell’uomo, egli di per sé tende al raggiungimento di un di più per la propria esistenza. L’uomo, specialmente nel passato (alcune popolazioni ancora oggi), si è sempre sentito in condizione di precarietà nei confronti del cibo. Una volta anche qui da noi c’era qualcuno che non sapeva se a mezzogiorno, dopo aver mangiato, ce n’era per la sera, oppure, dopo aver mangiato un giorno se ce n’era per il giorno dopo. Di conseguenza dire “cibo” significava dire vita. Il digiuno era la forma attraverso la quale l’uomo diceva a se stesso di avere bisogno continuamente di un di più, cioè di avere bisogno dell’incontro con Dio, quindi aveva un significato religioso. Del cammino verso Dio, quindi, il digiuno era una forma di richiamo, che l’uomo rivolgeva a se stesso, per poter incontrare il Signore. La domanda che viene rivolta è: “Com’è che i discepoli di Giovanni il Battista e i farisei digiunano e i tuoi discepoli non digiunano?” Gesù risponde loro: “Ciò che voi andate cercando nel futuro è presente e quindi l’incontro che voi vorreste avere con Dio nel futuro c’è adesso, Dio è con voi”. Quindi il richiamo che Gesù rivolge loro non è relativo al“digiunare o non digiunare”. Il problema è che gli uomini, talora anche in un procedimento doloroso, oppure non certo desiderabile, come è il digiuno, si innamorano talmente delle loro azioni per cui dimenticano anche lo scopo. Gesù dice loro: “Guardate al presente, non vivete di nostalgia del passato e non vivete così protesi verso il futuro da non vedere il presente”. “Aprite gli occhi sul presente!”dice loro Gesù, “perché ciò che Dio ha promesso, proprio davanti ai vostri occhi lo sta realizzando”. Questo è fede, perché è Dio stesso che accompagna l’uomo ed è presente all’uomo. Fede non significa dire “Dio c’è da qualche parte”, ma “Dio ha a che fare con la mia vita”, Dio è entrato nel mio tempo, Dio vive nello spazio dove vivo anch’io, perché se Dio vive altrove e non ha a che fare con l’esperienza della mia vita, allora che ci sia o non ci sia è la stessa cosa. Per cui la fede, primariamente, ed è questo il richiamo di Gesù, è la capacità di vedere una presenza, di vedere i segni della presenza del Signore nella storia del mondo, nella storia del suo popolo e anche nella storia di ciascuno di noi, poiché il Signore ha stabilito un rapporto definitivo con l’umanità nella persona di Cristo. È molto bella la prima lettura in cui si indica come il Signore con il suo popolo, il popolo ebreo, ha svolto un’azione come l’innamorato nei riguardi della sua ragazza. Purtroppo questa è una ragazza con molti uomini e di conseguenza c’è bisogno continuamente di un richiamo, affinché la persona amata di nuovo ristabilisca un rapporto affettuoso. È singolare come Dio esprima se stesso nelle modalità dell’innamoramento umano. Di conseguenza, ciò che è stato prima di Cristo: un fidanzamento che continuamente doveva essere riallacciato, finalmente nella persona di Gesù Cristo diventa indissolubile l’unità fra Dio e gli uomini, come insieme di divinità e umanità. Per cui l’esistenza di Cristo in quanto tale, l’unità in Cristo della divinità e della umanità, è una unità di matrimonio che non può essere mai disgiunta. Da questa assoluta volontà di unità fra Dio e l’umanità nasce poi il significato della indissolubilità del matrimonio cristiano. Il matrimonio cristiano ripete l’unità, nella condizione umana, fra Dio e gli uomini. Il matrimonio è indissolubile per il fatto che esprime, nella condizione umana, questo amore assoluto di Dio nei riguardi dell’umanità. Cristo quindi si presenta come colui che stabilisce un ordine nuovo ed è la prima affermazione che l’uomo deve fare quando riflette su di sé.  La sera, oppure quando abbiamo qualche momento di rientro in noi stessi, la prima realtà a cui pensare non è ciò che abbiamo fatto noi, ma ciò che ha fatto Dio. Se noi partiamo pensando a noi stessi e mettendo al centro noi stessi, ciò che noi abbiamo compiuto, questa diventa una riflessione sulla nostra realtà come se Dio non ci fosse. In fondo è una riflessione atea: Dio non c’è; salvo poi sotto forma di una specie di benedizione, introdurre Dio in un secondo momento, però l’operazione non è giusta, non è veritiera. Occorre che fin dall’inizio noi poniamo in gioco tutti i fattori che ci sono, altrimenti ne deriva che la riflessione è squilibrata. Occorre che noi abbiamo questa onestà, per cui poniamo subito all’inizio della riflessione tutti i fattori che sono in gioco, per avere uno sguardo adeguato. Il Signore ci viene a dire: “Il primo fattore che devi considerare nella storia della tua vita è il mio amore per te”. Questo è da tenere ben presente, perché in ciascuno di noi non esiste la capacità di autorealizzazione, poiché sia l’origine sia il destino della nostra vita non sono nelle nostre mani. Gesù quindi viene a dirci che non possiamo aggiungere, per così dire, una pezza su una realtà che, di fatto, ha un altro modulo di espressività, un'altra origine, così come non si può introdurre l’avvenimento della salvezza o l’amore di Dio su uno schema vecchio, ma occorre partire dalla iniziativa di Dio per ricomprendere, per avere un’intelligenza adeguata di noi stessi. L’esortazione quindi che ci viene dal Signore è questa: “Quando pensi, pensa prima di tutto a me, all’amore che ho per te, e solo in secondo momento la luce della tua persona sarà messa in primo piano in modo adeguato”. Chiediamo al Signore di darci la capacità di sapere vedere, di saperlo vedere, in modo tale che mentre riflettiamo sul nostro tempo, consideriamo che realmente la storia della nostra vita è un cammino fatto assieme al Signore, è una unità fra la storia del nostro tempo e la storia della presenza del Signore che ci accompagna in ogni momento. Il Signore ha già iniziato la sua presenza, nello stesso tempo noi siamo in movimento. Questo è il modo di pensare tipicamente cristiano. Anche nella messa, appena fatta la consacrazione diciamo: “mistero della fede, proclamiamo la tua morte o Signore, celebriamo la tua gloria, nell’attesa della tua venuta”; in un momento di massima presenza noi siamo in attesa e siamo in un’attesa garantita dal fatto che il Signore è già venuto. Proprio perché è già venuto noi siamo garantiti che il cammino proseguirà e raggiungerà la sua pienezza. Chiediamo insistentemente al Signore questo sguardo complessivo, che prende in considerazione tutti i fattori, in modo tale che la luce della verità illumini la nostra intelligenza e muova la nostra libertà.

 

Vangelo: Marco 2, 1-12

Data: domenica 20.02.2000.

   Il fatto che or ora abbiamo ascoltato, il fatto del Vangelo, ha in se stesso una connotazione un po’ umoristica. È chiaro che la casa, dove Gesù si trovava, era ricoperta con un po’ di paglia e di canne e forse un po’ di terra, ma ciò che è importante è ciò che si rivela, in questa situazione un po’ paradossale, del volto di Cristo. Non si è mai visto che Dio abbia dato agli uomini il potere di perdonare. Qual’ è la situazione dell’uomo? Ciascuno di noi per il fatto che è intelligente, non solo ha la capacità di illuminare lo spazio che gli sta attorno con la conoscenza, ma ha in se stesso la capacità di ascoltarsi, di vedere in se stesso, di sentire lo stato di salute di se stesso. Questo è quello che chiamiamo la coscienza. La coscienza è ciò che io sento di me. Il sentire di se, indubbiamente, è una cosa buona, perché mi permette di avvertire se il mio comportamento è in armonia o no con la verità della mia persona, solo che questa, per così dire, è solo l’analisi non è la guarigione. Ovviamente che venga individuato dove sta il male è un processo giusto ma non è già la terapia. 

Che il malato conosca il suo male è giusto però questo non lo abilita alla via della guarigione. L’immagine del paralitico è, in fondo, l’immagine dell’uomo, che ha coscienza di sé, però è prigioniero del limite, degli errori. Quando Gesù ci dice: “io ti assolvo, io ti slego dai tuoi peccati”, il peccato viene espresso come una limitazione ai movimenti dell’uomo. Se l’uomo di per sé è un essere in cammino, l’errore e il peccato rendono l’uomo come uno schiavo, che ha le catene alle mani e alle gambe: è bloccato. Il paralitico, quindi, è l’immagine della condizione dell’uomo. Come esce, il paralitico, da questa sua situazione? Attraverso l’incontro prima di quattro persone che si prendono cura di lui e soprattutto attraverso l’incontro con la persona di Gesù Cristo. L’incontro con la persona di Gesù Cristo gli rivela la via attraverso la quale l’uomo esce dalla sua condizione di schiavitù. È precisamente l’amore di Dio nei riguardi dell’uomo, il perdono di Dio nei suoi riguardi, che sblocca l’uomo dal suo passato.“Non ricordare più il passato”.Il Signore ci dice: “tu non sei più schiavo del passato”, perché io ti vengo incontro e ti libero dalla tua condizione, io ti riporto, nel cammino, nel percorso della vita che è corretto, che corrisponde alla tua persona. Indubbiamente, Gesù, indica che ciò che è proprio di Dio, come ristabilire il rapporto con Lui, che era prima solo di Dio, è stato trasmesso da Dio Padre a Gesù, e Gesù Cristo l’ha trasmesso alla sua Chiesa. Quindi, immediatamente, l’attenzione va al sacramento della confessione. Dato che adesso siamo a messa, anche questo momento, dell’incontro della nostra persona con Gesù Cristo è un incontro di misericordia, di bontà e di perdono. Il Concilio di Trento, quindi non è una cosa nuova, in due sessioni, nel 1551e nel 1562, ha detto che coloro che partecipano alla Santa Messa vengono liberati da tutte le mancanze compiute durante la settimana e ricevono la forza di fare fronte alla nuova settimana. Ogni volta in cui noi veniamo a messa non solo esprimiamo la nostra gratitudine nei confronti di Dio, non solo è un gesto di devozione, ma è un incontro reale, come quello del paralitico, con Gesù Cristo che ci libera dai condizionamenti, da tutto ciò che è accaduto. Questo è importante averlo presente, perché nel momento della messa, il momento in cui noi incontriamo Gesù Cristo nell’eucarestia, accade a ciascuno di noi precisamente ciò che è accaduto a questo paralitico. La nostra presenza, quindi, alla Santa Messa, oltre che essere un momento di riconoscimento, da parte di noi stessi, dei nostri limiti, dei nostri bisogni, quindi oltre che esserci da parte nostra una coscienza di noi stessi, un essere presenti a noi stessi, nello stesso tempo operiamo un incontro con il Signore, anzi per Sua iniziativa noi veniamo portati nella condizione di chi è salvato dalla sua condizione di limite. Ora procederemo all’amministrazione del Santo Battesimo a questo bambino, Matteo, e occorre che facciamo memoria di questo gesto originario, che il Signore ha compiuto nei nostri confronti. Nella misura in cui noi sperimentiamo che cosa significhi il perdono capiamo anche il significato del battesimo, perché se la gloria di Dio è l’uomo vivente, la gloria dell’uomo è l’incontro con Dio misericordioso. Questa è veramente la gloria dell’uomo: l’essere l’oggetto dell’attenzione e della cura da parte del suo Dio. Quindi mentre amministriamo il sacramento del battesimo cerchiamo di vedere Dio in azione, immediatamente su questo bambino, ma poi su ciascuno di noi e, facendo memoria, l’avvenimento del perdono riaccade in ciascuno di noi.

 

Vangelo: Marco 1, 40-45

Data: domenica 13.02.2000

   “Se vuoi puoi guarirmi”, questa è la prima preghiera che troviamo nel Vangelo indirizzata a Gesù. “Se vuoi puoi guarirmi”, in questa espressione noi troviamo manifestato un giudizio di valore, da parte di questo lebbroso, nei confronti di Gesù. Egli ha un’attrattiva, nei confronti di Gesù, come risposta alla sua domanda. La sua domanda è questa: “io voglio vivere, ho un gran desiderio di vivere, anche se tutto ciò in cui sono immerso mi induce alla non vita”. La lebbra era considerata presso gli ebrei una malattia contagiosa, il lebbroso, quindi, doveva vivere lontano dagli altri, lontano da ogni vita civile. Per mangiare andavano nelle discariche a trovare quel po’ che poteva esserci, molto di meno di quanto ci sia ora, inoltre dovevano essere loro stessi di annuncio per la “distanza”. Dovevano dire: “io sono lebbroso, sono immondo, dovete allontanarvi”. Doveva allontanarsi lui dagli altri e dovevano allontanarsi gli altri da lui. Chi era lebbroso veniva considerato come un maledetto da Dio. Notate la spaventosa solitudine in cui era accerchiato questo uomo, ma, per il grande desiderio che ha, egli rompe il cerchio della solitudine, della emarginazione e va contro la legge che gli impedisce di vivere. Così egli non dice “allontanatevi”, ma va da Gesù e si mette in ginocchio davanti a lui e Gesù, mosso a compassione, non scappa ma stende la mano e lo tocca. In questo piccolo episodio c’è come l’azione di due sovversivi, perché quando la legge non è per la vita, l’uomo rivendica il diritto di vivere e ha diritto di vivere. Gesù si muove verso questo uomo che ha un grande desiderio. Il desiderio che ha è di vivere. È un desiderio giusto, ragionevole e quindi dovrebbe essere ragionevole anche la domanda e invece non è così, perché se la religione è all’interno della ragione la ragione in quanto tale non prevede che un uomo possa chiedere ad un altro la salute, eppure l’orizzonte religioso è più grande della ragione umana per cui è ragionevole da parte dell’uomo chiedere a Dio ciò che è impossibile. Chiedere ad un uomo ciò che è impossibile è irragionevole, ma chiedere, nell’orizzonte religioso, ciò che è impossibile è estremamente ragionevole, perché corrisponde al desiderio più profondo nel cuore dell’uomo, che è quello di vivere e di vivere da uomo. Gesù si china verso questo uomo e stende la sua mano, lo tocca e risponde alla domanda “voglio,guarisci”. Se da una parte egli introduce questo uomo emarginato all’interno della società, dall’altra parte, per l’insieme delle folle che dopo lo seguono, egli è costretto a vivere in luoghi isolati e procura a se stesso di essere emarginato, perché non può vivere nel contesto sociale. Notate il passaggio, in qualche modo, di una sofferenza dal malato nella persona di Gesù e Gesù lo fa perché è mosso a compassione. Questa parola compassione ha una lunga storia. Presso il popolo ebreo, nei momenti di disgrazia, c’era il detto: “il Signore si è dimenticato di noi” e attraverso il profeta Isaia il Signore ha risposto:”Può forse una madre dimenticarsi del suo bambino?”, “forse che le sue viscere non hanno compassione del suo bambino?”. Gesù quindi diventa il luogo in cui si manifesta l’amore viscerale di Dio, l’amore materno di Dio nei confronti degli uomini. Gesù “stese la mano”, tante volte stende la mano, ma ci sarà un momento in cui sulla croce le stenderà tutte e due e in quel momento darà ed esprimerà la pienezza di se stesso, la pienezza, in fondo, della missione che il Padre gli ha affidato. Gesù da una parte viene ad indicarci come l’urgenza dell’uomo, l’ascolto, il desiderio non deve essere  nell’uomo mortificato. Il desiderio va accolto, il problema è individuare quale sia il desiderio che solleva radicalmente la condizione di sofferenza della persona. In genere noi abbiamo come una nuvola di moscerini di desideri, il problema è riuscire ad individuare il desiderio che realmente ridà consistenza alla nostra vita. Dobbiamo chiedere al Signore che ci dia la capacità di sapere ascoltare e leggere in noi stessi. La figura di Gesù ci indica come egli, all’interno di questo mondo, sia colui che rende l’umanità veramente corrispondente al desiderio di Dio, affinché nell’uomo ci sia l’esperienza e la domanda della vera umanità. Questo non si ha se non attraverso un intervento di Dio. La nostra esperienza ci dice che è molto più facile, anche se costa di più, costruire un’autostrada che costruire un ospedale. Questo non per cattiveria, ma semplicemente perché l’uomo è un essere di desiderio. Il desiderio dell’uomo è di vivere, non in modo “purché sia”, ma secondo l’orizzonte che porta l’uomo a chiedere ragionevolmente l’impossibile. Questa è la condizione umana: avere un desiderio grande, ragionevole, giusto, come giusto e ragionevole è chiedere la salute e vivere, ma nello stesso tempo a questa domanda, l’uomo, non è capace di rispondere da solo. Gesù, quindi, si manifesta come colui che avvicina l’uomo e quanto più l’uomo riconosce il bisogno, riconosce la domanda, tanto più è aperto alla risposta di Gesù Cristo. In noi c’è la tendenza, diciamo la presunzione, a non riconoscere questo bisogno, di conseguenza noi rimaniamo mortificati in noi stessi e copriamo come una pretesa autosufficienza la radicale insufficienza, disperata, della nostra persona. È importante riconoscere che abbiamo bisogno di salvezza. Gesù Cristo è venuto affinché proprio dalla domanda, dall’urgenza della domanda, noi ci disponiamo ad accogliere la mano che si stende su di noi e ci dice:”lo voglio, guarisci”. Di questo uomo non viene detto il nome, non viene detta l’ora e non viene detto il luogo. Marco lo fa intenzionalmente affinché ciascuno di noi, ciascun cristiano, ponga il suo nome, il suo luogo e il suo tempo, perché il Signore si pone in un atteggiamento di risposta al sincero desiderio dell’uomo di voler vivere.

 

Vangelo: Marco 1, 29-39.

 Data: domenica 6.02.2000.

 

   Gesù è come incalzato, continuamente, da una urgenza. Come sospinto da una forza, pur riempiendo i suoi giorni di attività in un luogo, egli deve sempre spostarsi anche in un altro. Il compito che ha ricevuto dal Padre è quello di portare alla unità, nell’Alleanza, il popolo ebreo. L’impresa è disperata, ma anziché venir meno all’impegno, Gesù si spende con tutte le forze. Egli passa di villaggio in villaggio, di casa in casa, prega nei momenti che riesce a strappare al sonno. La sua esistenza è piena di fatica. Gesù ha sperimentato la fatica della vita quotidiana, la fatica di far fronte agli impegni che la quotidianità della vita ci fa incontrare, gli impegni che ci vengono addosso e uno dopo l’altro ci mangiano tutto il tempo. Mangiare il tempo vuol dire mangiar la vita. Gesù spende la propria vita in una impresa che supera immensamente quello che egli può constatare. L’impresa, la fatica, di vivere, in una condizione particolare, la prova anche Giobbe, che è colpito non solo dalla fatica di vivere, ma anche da una dolorosa fatica di vivere, poiché la malattia lo colpisce. È bellissimo il libro di Giobbe, perché ha in se stesso le risonanze poetiche dei poeti greci, ma ha molti accenti che risuonano anche nel Foscolo, poeta italiano. Di Giobbe si legge poco nella Chiesa, perché ha un linguaggio di chi è sofferente, molto immediato, molto duro e potrebbe essere offensivo, potremmo dire, per le anime eccessivamente per bene, religiosamente. Diciamo che non è un libro per educande. È bella la situazione di Giobbe che si sente attanagliato proprio dalla fatica di vivere e dal dolore che lo accerchia e tende a distruggere la propria esistenza, però rispetto ai tragici greci, ha un’espressione che lo libera: “ricordati che un soffio è la mia vita”. Oppresso dalla sofferenza la sua preghiera verso Dio è: “ricordati”. Nella sua immediatezza, nella sua semplicità, egli richiama l’attenzione di Dio su di sé: “ricordati di me”. Bella questa espressione, molto sintetica, sulle labbra dell’uomo sofferente. Chi si affatica e affronta la fatica di vivere è l’apostolo Paolo, però la sua fatica è connessa con il rispetto della sua esistenza. La sua fatica è una necessità, come è necessità il respiro: “io non potrei vivere se non svolgessi questa funzione, per cui questa funzione per me è una necessità, non ne posso fare a meno”. Di qui la curiosa espressione che risulta immediatamente non chiara per noi: “se lo faccio di mia iniziativa ho diritto alla ricompensa, ma se non lo faccio di mia iniziativa è un incarico che mi è stato affidato”. Il confronto che fa San Paolo è questo: egli vive in una società dove ci sono degli uomini liberi, che agiscono liberamente e quindi guadagnano nel loro lavoro e ci sono gli schiavi, i quali debbono lavorare per necessità, perché qualcuno comanda su di loro, non acquistano diritto di salario, per cui, dice Paolo, “io questa attività la faccio per necessità, di conseguenza non guadagno niente, perché sono come uno schiavo, come uno che è afferrato dalla necessità della vita, per cui io debbo rispettare la mia esistenza, debbo avere cura della mia esistenza”. In fondo questa non è una cosa singolare, perché qui sta tutta la moralità di una persona. La moralità di una persona sta nel prendersi cura dell’esigenza dell’esistenza, sta nel prendersi cura di sé, rispettando se stessa. Questa è la moralità. San Paolo dice: io debbo agire in modo tale che possa vivere, altrimenti mi verrebbe meno il respiro e mentre svolgo queste attività io realizzo la mia persona. Annunciando il Vangelo divento partecipe con le persone che mi ascoltano. Non è che Paolo consideri se stesso come uno che è già cristiano, quindi come uno che può insegnare agli altri. Egli realizza la sua esistenza insegnando agli altri e nello stesso tempo partecipa di ciò che fa. È un po’ come dire che tutti i cristiani hanno il dovere di andare a messa alla domenica, è chiaro che i fedeli in un modo e il prete nell’altro, per cui io dicendo la messa, in fondo, vado a messa alla domenica. Cambia solo il modo, ma di fatto la messa la diciamo insieme. Come c’è l’urgenza di ogni battezzato di dirla, così anche il prete, fortunatamente, è uno battezzato, di conseguenza lo svolgimento della liturgia è di utilità sia dei fedeli, sia del sacerdote. Come è urgente che i fedeli partecipino con attenzione alla messa così è urgente che il prete partecipi con attenzione alla messa. È la stessa cosa. Ci sono solo ruoli diversi. “Questo io faccio per diventare partecipe con loro affinché ciò che facciamo sia utile a tutti noi che siamo qui presenti”. Il tema quindi posto innanzi al nostro sguardo è proprio la fatica del vivere come urgenza quotidiana, che ti sollecita a spendere il tempo e non ne puoi fare a meno. Il tuo quotidiano si svolge nella precarietà e anche talora apparentemente nella insensatezza di ciò che devi quotidianamente ripetere, eppure anche se il compito della vita tende a sovrastarci questo è già stato vissuto dal nostro Signore. Come il Signore Gesù si è sottoposto all’urgenza dell’esistenza per realizzare il compito della propria vita, anche se immediatamente sembra che vada incontro ad un fallimento, cosi anche nell’esistenza di ciascuno di noi, riflettendo sul tempo trascorso, uno ha come l’impressione che la vita se ne sia andata. Certe volte uno non ricorda più se sia un sogno oppure se sia realmente accaduto, dove il passato tende a cadere in una zona dove c’è come una nebbia di incertezza e l’esistenza umana procede in questo modo quotidianamente. Ognuno si deve spendere, perché lo deve a se stesso. Primariamente non c’è un altro che te lo faccia fare, ma è l’ubbidienza all’essere della tua persona, è l’ubbidienza per cui ciò che facciamo lo dobbiamo fare per rispettare noi stessi. Talora non ci sarebbe neanche esternamente l’urgenza, però il non farlo o il farlo diversamente sarebbe indegno di te e fare qualcosa che è indegno di te, questo, è il peccato. Il peccato è un comportamento che non realizza la persona oppure introduce fattori nell’esistenza della persona che ne fanno deviare, ne alterano lo sviluppo. È come se nel grembo materno intervenisse qualcosa che impedisse, bloccasse o rendesse deviante lo sviluppo del bambino; è la stessa cosa, solo che ciò che accade nel grembo è per natura, ma nell’esistenza dell’uomo dipende dalla libertà della persona: edificare una persona secondo una fisionomia, secondo un significato di vera umanità oppure lasciare che il tempo trascorra senza essere costruttori di vero volto umano. Notate che il vivere per una realtà superiore, per una realtà più grande, inserito in un orizzonte illimitato è la condizione perché il vivere quotidiano abbia il suo significato. Il significato di una cosa è sempre in un di più altrimenti vorrebbe dire che è come un’autocombustione e la cosa finisce lì, invece l’esistenza dell’uomo è per un di più. Così anche il nostro vivere, come quello di Gesù Cristo, occorre che sia illuminato per un di più che non appare, anzi, addirittura sembra impossibile e invece è proprio ciò che costituisce il suo fondamento e la sua giustificazione. Chiediamo al Signore di darci questo sguardo penetrante nella stanchezza o nella sofferenza della vita quotidiana, così che noi sappiamo cogliere l’orizzonte adeguato del nostro respiro e che il vivere nel tempo sia veramente per noi un vivere umanamente, nel respiro dell’intelligenza e della libertà.

 

Vangelo: Marco 1, 29-39.

 Data: domenica 6.02.2000.

 

   Gesù è come incalzato, continuamente, da una urgenza. Come sospinto da una forza, pur riempiendo i suoi giorni di attività in un luogo, egli deve sempre spostarsi anche in un altro. Il compito che ha ricevuto dal Padre è quello di portare alla unità, nell’Alleanza, il popolo ebreo. L’impresa è disperata, ma anziché venir meno all’impegno, Gesù si spende con tutte le forze. Egli passa di villaggio in villaggio, di casa in casa, prega nei momenti che riesce a strappare al sonno. La sua esistenza è piena di fatica. Gesù ha sperimentato la fatica della vita quotidiana, la fatica di far fronte agli impegni che la quotidianità della vita ci fa incontrare, gli impegni che ci vengono addosso e uno dopo l’altro ci mangiano tutto il tempo. Mangiare il tempo vuol dire mangiar la vita. Gesù spende la propria vita in una impresa che supera immensamente quello che egli può constatare. L’impresa, la fatica, di vivere, in una condizione particolare, la prova anche Giobbe, che è colpito non solo dalla fatica di vivere, ma anche da una dolorosa fatica di vivere, poiché la malattia lo colpisce. È bellissimo il libro di Giobbe, perché ha in se stesso le risonanze poetiche dei poeti greci, ma ha molti accenti che risuonano anche nel Foscolo, poeta italiano. Di Giobbe si legge poco nella Chiesa, perché ha un linguaggio di chi è sofferente, molto immediato, molto duro e potrebbe essere offensivo, potremmo dire, per le anime eccessivamente per bene, religiosamente. Diciamo che non è un libro per educande. È bella la situazione di Giobbe che si sente attanagliato proprio dalla fatica di vivere e dal dolore che lo accerchia e tende a distruggere la propria esistenza, però rispetto ai tragici greci, ha un’espressione che lo libera: “ricordati che un soffio è la mia vita”. Oppresso dalla sofferenza la sua preghiera verso Dio è: “ricordati”. Nella sua immediatezza, nella sua semplicità, egli richiama l’attenzione di Dio su di sé: “ricordati di me”. Bella questa espressione, molto sintetica, sulle labbra dell’uomo sofferente. Chi si affatica e affronta la fatica di vivere è l’apostolo Paolo, però la sua fatica è connessa con il rispetto della sua esistenza. La sua fatica è una necessità, come è necessità il respiro: “io non potrei vivere se non svolgessi questa funzione, per cui questa funzione per me è una necessità, non ne posso fare a meno”. Di qui la curiosa espressione che risulta immediatamente non chiara per noi: “se lo faccio di mia iniziativa ho diritto alla ricompensa, ma se non lo faccio di mia iniziativa è un incarico che mi è stato affidato”. Il confronto che fa San Paolo è questo: egli vive in una società dove ci sono degli uomini liberi, che agiscono liberamente e quindi guadagnano nel loro lavoro e ci sono gli schiavi, i quali debbono lavorare per necessità, perché qualcuno comanda su di loro, non acquistano diritto di salario, per cui, dice Paolo, “io questa attività la faccio per necessità, di conseguenza non guadagno niente, perché sono come uno schiavo, come uno che è afferrato dalla necessità della vita, per cui io debbo rispettare la mia esistenza, debbo avere cura della mia esistenza”. In fondo questa non è una cosa singolare, perché qui sta tutta la moralità di una persona. La moralità di una persona sta nel prendersi cura dell’esigenza dell’esistenza, sta nel prendersi cura di sé, rispettando se stessa. Questa è la moralità. San Paolo dice: io debbo agire in modo tale che possa vivere, altrimenti mi verrebbe meno il respiro e mentre svolgo queste attività io realizzo la mia persona. Annunciando il Vangelo divento partecipe con le persone che mi ascoltano. Non è che Paolo consideri se stesso come uno che è già cristiano, quindi come uno che può insegnare agli altri. Egli realizza la sua esistenza insegnando agli altri e nello stesso tempo partecipa di ciò che fa. È un po’ come dire che tutti i cristiani hanno il dovere di andare a messa alla domenica, è chiaro che i fedeli in un modo e il prete nell’altro, per cui io dicendo la messa, in fondo, vado a messa alla domenica. Cambia solo il modo, ma di fatto la messa la diciamo insieme. Come c’è l’urgenza di ogni battezzato di dirla, così anche il prete, fortunatamente, è uno battezzato, di conseguenza lo svolgimento della liturgia è di utilità sia dei fedeli, sia del sacerdote. Come è urgente che i fedeli partecipino con attenzione alla messa così è urgente che il prete partecipi con attenzione alla messa. È la stessa cosa. Ci sono solo ruoli diversi. “Questo io faccio per diventare partecipe con loro affinché ciò che facciamo sia utile a tutti noi che siamo qui presenti”. Il tema quindi posto innanzi al nostro sguardo è proprio la fatica del vivere come urgenza quotidiana, che ti sollecita a spendere il tempo e non ne puoi fare a meno. Il tuo quotidiano si svolge nella precarietà e anche talora apparentemente nella insensatezza di ciò che devi quotidianamente ripetere, eppure anche se il compito della vita tende a sovrastarci questo è già stato vissuto dal nostro Signore. Come il Signore Gesù si è sottoposto all’urgenza dell’esistenza per realizzare il compito della propria vita, anche se immediatamente sembra che vada incontro ad un fallimento, cosi anche nell’esistenza di ciascuno di noi, riflettendo sul tempo trascorso, uno ha come l’impressione che la vita se ne sia andata. Certe volte uno non ricorda più se sia un sogno oppure se sia realmente accaduto, dove il passato tende a cadere in una zona dove c’è come una nebbia di incertezza e l’esistenza umana procede in questo modo quotidianamente. Ognuno si deve spendere, perché lo deve a se stesso. Primariamente non c’è un altro che te lo faccia fare, ma è l’ubbidienza all’essere della tua persona, è l’ubbidienza per cui ciò che facciamo lo dobbiamo fare per rispettare noi stessi. Talora non ci sarebbe neanche esternamente l’urgenza, però il non farlo o il farlo diversamente sarebbe indegno di te e fare qualcosa che è indegno di te, questo, è il peccato. Il peccato è un comportamento che non realizza la persona oppure introduce fattori nell’esistenza della persona che ne fanno deviare, ne alterano lo sviluppo. È come se nel grembo materno intervenisse qualcosa che impedisse, bloccasse o rendesse deviante lo sviluppo del bambino; è la stessa cosa, solo che ciò che accade nel grembo è per natura, ma nell’esistenza dell’uomo dipende dalla libertà della persona: edificare una persona secondo una fisionomia, secondo un significato di vera umanità oppure lasciare che il tempo trascorra senza essere costruttori di vero volto umano. Notate che il vivere per una realtà superiore, per una realtà più grande, inserito in un orizzonte illimitato è la condizione perché il vivere quotidiano abbia il suo significato. Il significato di una cosa è sempre in un di più altrimenti vorrebbe dire che è come un’autocombustione e la cosa finisce lì, invece l’esistenza dell’uomo è per un di più. Così anche il nostro vivere, come quello di Gesù Cristo, occorre che sia illuminato per un di più che non appare, anzi, addirittura sembra impossibile e invece è proprio ciò che costituisce il suo fondamento e la sua giustificazione. Chiediamo al Signore di darci questo sguardo penetrante nella stanchezza o nella sofferenza della vita quotidiana, così che noi sappiamo cogliere l’orizzonte adeguato del nostro respiro e che il vivere nel tempo sia veramente per noi un vivere umanamente, nel respiro dell’intelligenza e della libertà.

 

Vangelo: Marco 1,. 21-28

Data: domenica 30.01.2000.

 

  Il parlare di Gesù viene avvertito come quello di uno che ha autorità. Notate questa curiosa espressione. Quando noi parliamo di autorità, come modello fondamentale abbiamo in mente l’organizzazione militare. Nell’organizzazione militare ciò che si debba fare o non fare non viene stabilito dal soldato, ma c’è un altro che lo stabilisce per lui e lui deve fare quello che ha stabilito un altro. Invece nel vangelo la parola autorità indica l’aiuto che una persona dà ad un altro perché viva. Autorità è colui che aiuta un altro a vivere, che favorisce lo sviluppo di una persona. Coloro che ascoltavano Gesù sentivano che la preoccupazione di Gesù non era quella di fare una lezione, ma di essere di aiuto alle persone che ascoltavano. Non è come un insegnante che è preoccupato di fare il programma, Gesù è preoccupato di essere di aiuto alle persone affinché vivano. Le persone sentono che la parola che comunicata corrisponde alla domanda e c’è una corrispondenza fra ciò che viene comunicato, che viene dato e la domanda che è all’origine della persona. Gesù si presenta con autorità sia perché il suo dire scaccia via ogni potere maligno, che è di ostacolo alla vita della persona, sia perché le persone sentono che c’è una corrispondenza fra le aspirazioni di vita dell’uomo e la parola che viene data; c’è un combaciarsi di due realtà, quindi la persona sente che deve seguire un altro. Autorità è colui che guida e perché l’autorità eserciti legittimamente il mandato occorre che ci sia qualcuno che l’ha scelto, che persegue il cammino della vita e lo riconosce come guida. Un esempio di questo l’abbiamo nella lettera che San Paolo invia ai Corinti, di cui abbiamo letto un brano, anche se di per se non esprime bene il pensiero di Paolo. Per capire bene il suo pensiero, che cosa intende dire, occorre leggere tutto il capitolo settimo della prima lettera ai Corinti. Paolo ne ha scritte due e abbiamo letto solo un brano del capitolo settimo. Qual è il problema che hanno queste persone di Corinto? Il problema che essi hanno è questo: sono fermamente convinti che il tempo fra l’ascensione di Gesù al cielo e il ritorno di Gesù Cristo sulla terra ormai sia finito. Essi hanno la convinzione che, praticamente, il giudizio universale sia questione di mesi. Questa è l’idea di fondo. Capite che, se uno deve programmare la vita per un mese o due o deve programmare la vita per cinquant’anni, o finché vive, l’orizzonte è molto diverso, le proporzioni sono molto diverse. Paolo condivide questo punto di vista, che il mondo abbia poco tempo prima del ritorno di Cristo. Dice:“Il tempo è breve”, nel senso che il segmento fra la ascensione al cielo e il ritorno di Cristo sta per finire. Egli dà questa esortazione: che ognuno rimanga possibilmente nella condizione in cui è stato raggiunto dal messaggio evangelico; per cui se uno era sposato, rimanga sposato, se uno non era sposato rimanga non sposato. Questa è la risposta alla domanda che gli abitanti di Corinto scrivono a Paolo. Egli dice che ognuno ha ricevuto dal Signore il suo dono. Ogni persona può essere fatta per un genere di vita o per un altro, quindi uno, primariamente, ascolti se stesso, per cosa è fatto. “Se una persona non è sposata veda di continuare a rimanere non sposata”, il brano indica poi i vantaggi che ha una persona che non sia impegnata, ma se una persona ha delle preoccupazioni a vivere questo genere di vita, scelga un genere di vita che lo renda sereno. La preoccupazione di Paolo è che le persone siano serene e dice: “io penso che sia meglio che una persona non si sposi”, questa è la sua convinzione, infatti lui non è sposato ed è contento della sua condizione, però dice: “con questo non voglio mettere un laccio addosso a nessuno”, perché ognuno deve seguire il genere di vita che corrisponde alla sua indole, alla sua natura. In questo modo il brano sembra un’apologia della vita del non sposato, invece Paolo è preoccupato che le persone vivano nella ubbidienza alla esigenza fondamentale della loro persona e ciascuno, nel proprio stato di vita, realizzi quel desiderio di vera umanità che il Signore stesso ha inscritto in ogni persona. Ad ogni modo se desiderate conoscere tutto il pensiero di Paolo bisogna andare nella bibbia, leggere la prima lettera ai Corinti il capitolo settimo, in modo tale da vedere equilibrate le diverse posizioni. Perché il problema è che ogni persona deve seguire il percorso della sua esistenza che gli permetta di vivere in se stesso quella umanità che Cristo è venuto a portare agli uomini, affinché la forma di vita dell’uomo corrisponda, in fondo, al progetto che Dio ha sull’esistenza dell’uomo e quindi corrisponda anche ad un cammino di felicità della condizione umana. Il vangelo ci richiama primariamente alla scelta di chi guida la nostra vita. La domanda diventa io chi seguo? Seguo l’insegnamento di Gesù Cristo o seguo i miei pensieri, la mia istintività, il mio punto di vista? In un certo senso, giro come un randagio dentro me stesso? La domanda diventa, concretamente, in ciascuno di noi: “qual è la persona, la realtà che ha autorevolezza, alla quale io mi affido, perché gode della mia fiducia, dell’apertura, della mia disponibilità e quindi la mia libertà è aperta ad accogliere un aiuto e un sostegno nell’esistenza?” Importante è che noi, che siamo cristiani, abbiamo come legge universale, come legge generale, la concreta esistenza di Gesù Cristo. Propriamente i cristiani non hanno delle leggi. Propriamente i cristiani hanno il comportamento concreto di una persona. Il comportamento concreto come unità di misura del bene e del male è l’esistenza di Gesù Cristo. Per cui la conoscenza di Gesù Cristo è la via attraverso la quale io conosco anche la verità del cammino della mia vita. La meditazione, la riflessione che noi facciamo, sia la domenica sia in altri momenti, sulla persona di Cristo non è altro che la risposta al nostro bisogno che qualcuno ci aiuti nel cammino della vita. È ben sciocca una persona che dice: “nella vita me la cavo da sola”; ciò non è vero. Occorre, anzitutto, che ciascuno di noi riconosca di avere ricevuto da tante altre persone, che possiamo avere anche dimenticato. Nello stesso tempo, nel presente, l’esistenza di altre persone che si curano di noi, che sono vicine a noi, ci sono continuamente di richiamo e di stimolo. Occorre che abbiamo la viva coscienza di non essere delle persone che si sono fatte da sole, anche se nel cammino della nostra vita ci siamo impegnati seriamente, perché per essere un uomo intero ed essere una donna intera si richiedono tutte le energie di una persona. L’uomo non è un essere, potremmo dire, che spontaneamente fiorisce per forza naturale, ma occorre tutta la libertà e la volontà delle persone in un progetto di vita molto serio. Ora, la parola del Signore viene, anzitutto, affinché noi apriamo la nostra libertà ad accogliere gli stimoli che lo Spirito del Signore esercita su ciascuno di noi e a mettere ben a fuoco quali siano i pensieri, i sentimenti e quali siano le persone che noi seguiamo, in modo tale da rettificare, per quanto è possibile, l’unità di misura dei nostri pensieri, dei nostri atteggiamenti, in modo tale che via via trascorre il tempo la nostra forma di esistenza sia sempre di più simile alla forma di esistenza di nostro Signore Gesù Cristo.

 

Vangelo: Marco 1, 14-20

Data: domenica 23.01.2000.

 

   Nella prima lettura l’inizio è: “fu rivolta a Giona una seconda volta la parola”. Perché nella prima in cui il Signore aveva detto a Giona di andare a Ninive dalla Palestina, quindi di andare ad oriente,  Giona aveva preso invece la via del mare mediterraneo. Egli non voleva che giungesse ad un popolo che non era il popolo ebreo la parola di salvezza del Signore. Giona poi è costretto, se vuole continuare a vivere, a svolgere la sua missione, quindi andare a Ninive e dire: “ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta. Egli lo dice come minaccia e, in fondo, ha piacere, tanto è vero che quando alla fine Ninive si converte e il Signore perdona, lui ci resta male. Questo per dire come il nostro modo di rappresentarci il Signore, tante volte, non corrisponde alla realtà del Signore,  perché gli attribuiamo sentimenti umani, dovuti alla debolezza oppure al temperamento o lo spirito vendicativo dell’uomo. Dio non è vendicativo, infatti il messaggio che ne viene è che   il Signore desidera la vita dell’uomo, non desidera punire. Chi ama, in fondo, dice alla persona amata: “voglio che tu viva”. Qualsiasi indicazione di minaccia è perché la persona si ravveda. Il nostro Dio non è una forza inesorabile della natura, ma è realmente un essere intelligente che ama e che desidera che le sue creature vivano e crescano. Questo occorre averlo presente ed è un messaggio che ci viene già dal vecchio testamento: Dio è padre di tutte le sue creature. Questa è un’osservazione che è importante avere presente. Gesù dice e sono le prime parole riferite di Gesù: “il tempo è compiuto il regno di Dio è qui”. La traduzione letterale è “il regno di Dio è qui”. L’indicazione del Signore indica l’urgenza di prendere posizione, perché normalmente gli uomini o si dedicano alla contemplazione del tempo antico, di ciò che è trascorso, rimpiangendo ciò che è accaduto, oppure vivono progettando sempre verso il futuro. Gesù invece dice: “il regno di Dio è qui, ora”. Notate come Gesù punta sulla densità del tempo “adesso”, perché la libertà della persona sia tutta investita in un’azione che deve compiersi non come desiderio, non come rimpianto, ma come comportamento della persona. La verità della persona si ha osservandola in azione. È l’esistenza che rivela ciò che preme, ciò che una persona ha nel cuore. Questa è una connotazione che viene poi esemplificata, perché sia Simone che Andrea, sia Giovanni che Giacomo stavano lavorando. La loro chiamata non è avvenuta mentre, che so io, erano nel tempio a pregare; è venuta mentre stavano lavorando, stavano pescando, stavano riassettando le reti oppure stavano di fatto già svolgendo la loro attività di pescatori. Erano pescatori. Quindi il regno di Dio è nell’incontro con Gesù Cristo nel momento in cui tu sei in azione. Notate come ne deriva una concezione della vita, dove l’accoglienza della presenza del Signore mobilita la persona, perché l’incontro che si è avuto adesso non è come quello di ieri, non è come quello di domani, perché ogni momento ha in se stesso una densità, che deve essere presa della persona. La persona deve riaffermare quale sia la consistenza della sua vita. Nel momento presente, nell’adesso, io mi gioco la vita, questa è l’idea fondamentale, in modo da non rimandare verso il futuro o di non rimpiangere ciò che non si è fatto nel passato.   Ormai il passato non ti appartiene più. Ad una persona che era andata a visitare l’opera di Madre Teresa di Calcutta e lodava la sua opera e si riprometteva di fare grandi cose perché l’opera riuscisse, Madre Teresa gli ha detto: “lei ha con se il libretto degli assegni? Segga e scriva, adesso”. Notate! Se hai dei sentimenti e hai un progetto buono, siediti e fallo, oppure muovi le gambe ed entra in azione, dove l’urgenza dell’adesso indica come la libertà dell’uomo debba riaffermare quale è la consistenza ed il motivo del suo esistere. Questo spiega anche il curioso modo di parlare di San Paolo ai Corinti. Questo “come se”, “come se non”, dove viene indicato alla persona che, nel suo esistere, non può buttare su un’altra persona o su una cosa la consistenza del suo vivere, il motivo della sua vita. Perché, se io non sono capace di reggere la mia esistenza, forse, buttando il significato della mia esistenza su un’altra persona, quest’altra persona sarà capace di reggere il significato della sua e della mia esistenza? Accade, talora, che ci sia un investimento di significato della propria vita su un’altra persona. Questo determina una pretesa, perché si vorrebbe che l’altro, in fondo, fosse lo specchio di se stesso, dei propri desideri. Qui, San Paolo, fa l’esempio della moglie, ma si può fare l’esempio del marito, dei figli, che sono realtà che è giusto, è necessario, è naturale che siano amate, che siano accolte, ma non possono essere il luogo della consistenza della vita, il motivo fondamentale per cui si vive. Occorre che ogni persona abbia in se stessa la consistenza del vivere, in modo tale da non doversi appoggiare su un’altra persona, come un paralitico, perché amare una persona non vuol dire:” ti amo perché tu mi sostieni”, ma “io vivo assieme a te, camminiamo e ci reggiamo assieme l’un l’altro”, non che uno diventi parassitario in qualche modo dell’altro. Occorre che ciascuno metta in opera tutte le proprie energie, in modo da riaffermare, con la propria libertà: “ci sono”, “ci sono, adesso”, dove l’affermazione di se nel tempo non è altro che un giocare la propria esistenza nell’adesso che si compie. Il regno di Dio ci viene ad indicare come i diversi momenti della nostra vita siano tutti realmente importanti. È singolare come Gesù chiami le persone mentre stanno svolgendo il loro lavoro quotidiano. L’incontro con il Signore, come accoglienza della sua presenza, come libertà che si apre all’accoglienza della presenza del Signore, accade ed è un atteggiamento fondamentale, che occorre chiedere al Signore, affinché il Signore ci faccia sperimentare la sua presenza, la sua compagnia, il suo esistere insieme a noi, il condividere assieme il respiro della vita. Mentre da una parte occorre che noi riaffermiamo che Gesù Cristo è colui che rende ragione, che illumina la nostra esistenza, dall’altra parte occorre che ridimensioniamo la nostra dipendenza da tutte le altre realtà; in modo che si affermi    sempre di più il valore della nostra persona nei confronti di tutto ciò che ci circonda, dove il nostro esistere è un esprimere ciò che siamo e un comunicare la nostra esistenza come dono alle altre persone che vivono assieme a noi. Quello che puoi fare, lo devi fare, lo devi fare per rispetto a te stesso, per rispettare il tuo Dio e per rispettare le altre persone. Nessuno di noi può programmare la propria esistenza come parassita dell’esistenza di un’altra persona, sotto qualsiasi copertura; non si può negare che ciascuno di noi possa, come dire, agire e con ciò di cui dispone costruire la propria esistenza. Chiediamo al Signore che ci dia questa lucidità, questa fortezza, questa audacia nell’affrontare il nostro tempo, così da non rimanere preda né del passato né delle illusioni, dei sogni del futuro, ma di cogliere il valore, la densità della nostra vita, proprio nell’istante meno clamoroso, ma un istante vero vissuto da noi in consonanza col nostro cuore, col desiderio di bene, di verità che il Signore stesso ha inscritto nel nostro cuore. Chiediamo al Signore che ci dia questa lucidità, questa prontezza nel fare il bene, così che il nostro tempo non sia un tempo che se ne va come l’acqua, ma che sia un tempo che costruisce realmente l’identità della nostra persona e costruisce una storia buona di unità e di amore  che vince l’usura del tempo.

 

Vangelo: Giovanni 1, 35-42

Data: domenica 16.01.2000.

 

Quando Giovanni scrive il brano del vangelo, che ora abbiamo letto, sono passati quasi ottant’anni. Nel descrivere ciò che gli è accaduto ha bene in mente la situazione, perché da quell’incontro è cambiata tutta la sua vita. Ricorda un particolare: l’incontro è avvenuto alle quattro del pomeriggio. Ci sono dei momenti nella vita di una persona, che hanno una incidenza, dove la libertà della persona viene talmente risvegliata, che la libertà si assume la responsabilità di tutta la vita. Giovanni raccontandoci ciò che gli è accaduto, ci viene a dire che tutto è cominciato con un incontro. È avvenuto un incontro imprevisto. Nel suo cuore c’era il desiderio di un di più. Il fatto che fosse attento alle parole di Giovanni il Battista, del profeta, indica che c’era una domanda, in lui, per un di più di vita. Aveva bisogno della luce del profeta, che gli indicasse il significato, il valore della sua vita. Perché il profeta non è colui che guarda molto lontano, ma è primariamente colui che vede bene nel presente e vede quindi quali sono le linee di forza che reggono la storia degli uomini. Prima di Giovani il battista, c’era stata la promessa del Signore, rinnovata di generazione in generazione, di un Messia, del Salvatore. Finalmente Giovanni dice: “ecco l’agnello, è qui”; dove, nel presente, c’è la intelligenza di ciò che Dio ha compiuto. “Non guardate da altre parti”, dice, “ecco, non distraetevi, non guardate lontani orizzonti di futuro”.”Guardate nell’adesso, perché è adesso che c’è il Signore, ecco è qui, guardate qui”. Giovanni, che scrive, assieme al suo amico Andrea, seguono la parola di Giovanni il Battista, che è la conclusione di tutta la storia del vecchio testamento. Dopo il popolo della promessa, comincia il popolo della realizzazione dell’avvenimento che è accaduto. Giovanni, assieme ad Andrea, racconta ciò che gli è accaduto. Ciò che gli è accaduto diventa il motivo di tutta la sua vita e, nella sua vita, egli capisce che deve fare memoria di quello che gli è accaduto. Ciò che è accaduto nell’incontro ha risvegliato tutte le potenzialità della sua vita. Nella memoria di ciò che è accaduto, in questa nuova coscienza lucida di sé, sta tutta la verità da svolgere nel tempo della sua vita. Giovanni ha una cura particolare su ciò che gli è accaduto, perché ciò che gli è accaduto gli riempie il cuore di letizia. Perché l’uomo è lieto quando il suo cuore è stato risvegliato alla verità della vita, per cui è bello vivere, perché c’è lo splendore della verità della vita. Cristo ha risvegliato la verità ha illuminato l’esistenza di queste persone. Il bene che hanno ricevuto queste persone è un bene contagioso. E questo bene contagioso si trasmette alle persone che incontrano. Attraverso il loro racconto si trasmette ciò che è accaduto, si trasmette l’avvenimento. Questo indica come sia giunta a noi anche la fede in Gesù Cristo, perché dopo Giovanni e Andrea ci sono stati altri, che hanno accolto il racconto e a loro volta hanno raccontato ciò che era accaduto.Nel raccontare viene trasmessa la verità, la realtà che è stata incontrata. Così per nostro padre, oppure i nostri educatori, i nostri nonni e così via. Quindi dobbiamo osservare la nostra fede come un’accoglienza. C’è come un filo rosso nella storia e, attraverso questo filo rosso, giunge a noi l’avvenimento che sta all’origine del cristianesimo. Vedendo le grandi manifestazioni, anche nei giorni scorsi e nei giorni che verranno, uno si chiede, ma il cristianesimo come è nato?È nato così: due, Giovanni ed Andrea, hanno incontrato Gesù, di lì comincia la chiesa nella sua manifestazione esterna. Attorno alla persona di Gesù Cristo si costruisce, di generazione in generazione, sempre, per il permanere vivente di Cristo nel tempo, il suo corpo che è la Chiesa. La realtà di Cristo investe tutta la vita delle persone, anche perché la vita delle persone ha già in se stessa una domanda. Un’urgenza di verità l’avevano Giovanni ed Andrea quando sono andati da Giovanni il Battista, ma questa urgenza di verità non è altro che il pervenire a livello di coscienza di un disegno, che il creatore ha inscritto in ciascuno di noi quando ci ha messo in questo mondo. Ciascuno di noi viene in questo mondo già con un destino segnato, un destino buono segnato. Noi non veniamo buttati su questa terra, ma è già orientata la nostra esistenza. Compito quindi dell’uomo, per così dire, non è, con la fantasia, di inventare la propria esistenza, ma di cercare quali sono i doni ricevuti e attraverso la parola del Signore, che illumina la diverse situazioni, l’uomo si muove nel cammino della vita e realizza la volontà del Signore. Ci sono degli uomini che sono chiamati a gesti particolarmente clamorosi, noi siamo chiamati a vivere la vita quotidiana. In un certo senso imitiamo Gesù durante i trent’anni della vita di Nazareth: non c’è nessun clamore, nessun fatto esterno, però noi realizziamo il regno di Dio in questo mondo nella situazione in cui noi ci veniamo a trovare. Ciascuno di noi è stato posto nell’esistenza, è stato chiamato nell’esistenza con il suo nome e noi siamo chiamati a realizzare nella nostra esistenza il nome profondo che Dio ci ha dato. Cristo quando incontra Simone, figlio di Giovanni, dice. tu ti chiamerai Pietro, il nome che gli uomini ti hanno dato è Simone, ma il tuo nome, per così dire, teologico, il nome che Dio ti dà è quello di essere una pietra, di essere il fondamento, che significa anche la missione, lo scopo, il significato della vita della persona. Se la prima parola l’ha detta Dio, l’atteggiamento originario che dobbiamo avere è quello dell’ascoltare la prima parola e quindi di essere l’eco in cui risuona la prima parola. Di conseguenza noi siamo la risposta alla parola che Dio ha posto nella nostra esistenza. Dobbiamo chiedere al Signore che ci dia una forza serena nell’affronto della vita, perché egli stesso ha stabilito il nostro destino: noi siamo dei predestinati. Occorre quindi che noi, pur affrontando faticosamente il nostro quotidiano, sappiamo di muoverci in un orizzonte buono, in un orizzonte, che, nella sua bontà è garantito da Dio stesso. Così, mentre giorno dopo giorno viviamo e ascoltiamo la parola del Signore, noi veniamo investiti dalla potenza di salvezza di nostro Signore Gesù Cristo e, mediante questa salvezza, che primariamente raggiunge noi attraverso il sacramento, noi realizziamo quel nome che Dio ha inciso all’origine della nostra esistenza, che è il nostro vero nome di fronte a Dio e che porteremo per sempre.

 

Vangelo: Mc. 1, 7-11

Data:domenica 09.01.2000, Battesimo del Signore.

 

 Durante quest’anno ci sarà da guida nella conoscenza del volto del signore l’evangelista Marco. L’evangelista Marco sarà, in qualche modo, il nostro catechista, colui che ci permetterà di entrare nello spazio della presenza di Gesù. Ci introdurrà nella esperienza che egli ha avuto, rimanendo a contatto con Pietro, della compagnia del Signore. L’evangelista Marco ci ha detto solo il nome di Gesù, per cui ciò che abbiamo letto è la prima mossa che fa Gesù. La prima mossa consiste in questo: egli si mette in fila con le altre persone lungo le rive del Giordano per essere immerso nell’acqua. Questo primo gesto di Gesù  Cristo è veramente singolare, perché c’è stato prima un grandissimo silenzio. Venne da Nazareth di Galilea, dove a Nazareth è rimasto circa trent’anni. È veramente misterioso questo lungo silenzio nella vita di Gesù. A Nazareth che cosa faceva? Faceva un po’ il lavoro di suo babbo. Presso i contadini una vola molti lavori venivano fatti da loro stessi specialmente durante l’inverno, però c’erano alcuni lavori che erano un po’ più raffinati come rifare una finestra, una porta, accomodare una ruota di un carro. Questo era il lavoro di Giuseppe. Inoltre egli aveva una piccola bottega nella quale durante la stagione in cui non si poteva girare faceva altri lavori. Gesù quindi ha trascorso una grandissima parte della sua esistenza in un lavoro che non aveva nessuna risonanza e quindi appartiene al genere di attività che riempie i nostri giorni. I nostri giorni sono un muoversi continuo però non c’è nulla di rilevante dal punto di vista della storia umana. Però questo è un genere di vita che conviene anche al nostro Dio, notate il passaggio. È importante perché viene gettata una luce sul nostro quotidiano molto semplice, il quotidiano che scorre e che noi siamo portati a dimenticare. La prima mossa di Gesù è quella di mettersi in fila con l’altra gente. Altra gente che sente di dovere invocare l’aiuto del Signore, poiché la esistenza è veramente difficile da affrontare. L’uomo si sente fragile, inconsistente rispetto l’urgenza del conoscere l’urgenza di fare il bene, di portare unità nella propria esistenza. Quindi, primariamente, mettersi in fila per immergersi nelle acque, significa rivolgere la propria attenzione a qualcuno e quindi di per sé è un gesto religioso. Gesù fa un gesto religioso. Gesù è religioso nella misura in cui stabilisce nella propria esistenza un contatto con Colui che gli è Padre e questo modo di agire di Gesù sorprende lo stesso Giovanni Battista, perché nelle parole che egli trasmette ai suoi discepoli tratteggia una figura di messia veramente forte, potente, che dispiega una energia, una forza quasi violenta. Invece se lo trova lì davanti, assieme alle altre persone. Quindi è un momento anzitutto di rivelazione del volto di Dio. Noi siamo quindi invitati, quando pensiamo a Dio, a vedere una persona che in una teoria, in una processione, ha un atteggiamento religioso e non ha niente di particolare rilevanza da poter essere distinto dagli altri. Il nostro Dio si presenta come Colui che ha un volto così umano che quasi ci sorprende e ci scandalizza un po’. Perché noi vorremmo che Dio fosse secondo i nostri desideri, ma nella misura in cui siamo noi a mettere qualcosa a Dio, a mettere addosso a Dio qualcosa di nostro, in quella misura lì non è più Dio. Quindi si richiede da parte nostra una accoglienza della rivelazione di Dio nel volto di Cristo. Questo atteggiamento di Cristo di condividere totalmente la condizione umana, di fare fino in fondo l’esperienza della condizione umana, viene approvato dal Padre: “Tu sei il mio Figlio”. In questo modo di agire di Gesù Cristo c’è la massima espressività, in questa debolezza, in questa fragilità, del volto del Padre. Il massimo di espressività, il massimo di forza, si ha nel fatto che Dio si manifesta agli uomini come Colui che si prende cura degli uomini. Quanto maggiore è l’amore per la persona amata, tanto maggiore è il desiderio che la persona amata viva e di conseguenza la disponibilità a mettersi al suo servizio. L’umiliazione di Dio in Gesù Cristo, nella misura in cui ci sorprende, indica che l’amore di Dio è molto superiore a quello che noi pensiamo. Quindi Dio ci ama molto di più rispetto a ciò che noi saremmo portati a considerare. Cristo quindi si immerge nelle acque. Le acque di per se indicano il pulito però indicano anche, propriamente, come un morire per riemergere. Ci sarà un giorno in cui Gesù sarà immerso nelle grandi acque della morte, ma risorgerà. Dove ci viene indicato che la esistenza di Cristo è già di per sé un’indicazione affinché la nostra esistenza abbia la fisionomia dell’esistenza di Gesù Cristo. Noi siamo stati battezzati, siamo stati immersi in qualche modo nell’acqua e siamo chiamati a vivere secondo lo Spirito del Signore. La discesa dello Spirito significa un momento di particolare lucidità, di particolare chiarezza, di particolare evidenza nella stessa coscienza di Gesù Cristo di essere il figlio di Dio. Perché in Gesù Cristo c’è stata una presa di coscienza progressiva come nella conoscenza dell’uomo. Se Gesù Cristo è un vero uomo, ha imparato un po’ alla volta. Come noi facciamo la fatica di imparare un po’ alla volta, e impariamo un po’ alla volta l’identità della nostra persona, attuandola nel tempo, così Gesù Cristo vivendo ha sempre di più, col trascorrere del tempo, preso coscienza di se stesso. Questo rappresenta quindi un momento di particolare luce, di particolare forza, di particolare presenza di sè. Il luogo della coscienza di sé, di consistenza di sé  è il suo rapporto col Padre. Tutta l’esistenza di Cristo non sarà altro che uno svolgersi, una conseguenza, di queste parole che Gesù ascolta: “Tu sei mio figlio”. E quindi tutta l’esistenza di Cristo è l’esistenza di un figlio, di chi appartiene ad un altro, di chi vive un’esistenza il cui orizzonte non è definito solo dal proprio punto di vista, ma il proprio punto di vista è assieme ad un altro, è comunione di vita con un’altra persona. Chiediamo al Signore che dia anche a noi la lucidità di coscienza su ciò che siamo, su ciò che siamo diventati attraverso il battesimo in modo tale che il nostro vivere quotidiano illuminato dal volto di Dio sia un quotidiano che riempie il nostro animo di gioia e di letizia e nello stesso tempo di gratitudine, perché ciò che siamo lo dobbiamo all’amore di Dio, che ha preso la nostra condizione umana, perché noi entrassimo a far parte della sua famiglia.

 

Vangelo: Mt. 2,1-12

Data: Epifania 06.01.2000

 

La Epifania risveglia in noi ricordi lontani, che risalgono all’infanzia. All’età in cui erano mescolati: desiderio e immaginazione, sogno e vita quotidiana. Poi molto in fretta sono passati molti anni e la ragione ha segnato e posto in luce ciò che appartiene al suo dominio; ha stabilito dei rigidi confini fra il vero e il non-vero, fra il possibile e l’impossibile. La ragione si è posta come unità di misura, come orizzonte di tutta la realtà, e questa è una pretesa irragionevole. L’Epifania ci invita ad essere meno schematici, con meno pregiudizi, ma più aperti e più docili nei confronti del grande mare della realtà, piena di sorprese e di paradossi, incalzati da una continua domanda di significato. Questo stato d’animo di apertura, verso ciò che si potrà anche chiamare “impossibile”, è lo stato d’animo corretto per questa festa, dove paradossalmente si potrebbe dire: “Noi siamo molto ragionevoli , chiediamo l’impossibile”. Dove viene posta l’apertura, senza limiti, alla realtà, poiché la realtà supera i pensieri dell’uomo. Questo stato d’animo, in qualche modo, ha investito il popolo cristiano, perché Matteo è piuttosto parco nell’indicarci l’avvenimento, i personaggi. Parla di alcuni magi:  la tradizione cristiana ha sentito il dovere, subito, di dire che erano tre, che non erano semplicemente magi, ma erano dei re. Poi ha posto a loro anche il nome. Si vede che c’è in queste figure una elaborazione del vissuto in quanto tale che cerca di mettere in evidenza il significato. Vediamo di coglierlo. Questi magi, nell’antichità  erano delle persone che studiavano i fenomeni della natura. Dalla conoscenza dei fenomeni della natura essi traevano indicazione  su come partecipare di più al senso della vita. I fenomeni della natura erano in qualche modo dei messaggi della divinità, inviati all’uomo, affinché l’uomo vivesse maggiormente in armonia con la divinità. La conoscenza, quindi, era un cammino affinché l’uomo partecipasse sempre di più alla compagnia alla vita con la divinità. Abbiamo, quindi, queste persone che ubbidiscono a ciò che accade. Essi hanno visto il fenomeno particolare che sollecita la loro persona ad andare, a seguire, ad essere in qualche modo ubbidienti alla forza della verità. Abbiamo i sacerdoti e gli scribi, i quali ne sanno, ne sanno molta a proposito del messia, ma ciò che essi sanno è un loro possesso, è loro proprietà. Essi sono depositari come uno scrigno privato, sono depositari e lo tengono per se come possesso, come potere, ciò che è stato dato di conoscere loro. Essi si fanno padroni della verità, ma questa non ha più a che fare con la loro vita. Essi si muovono secondo altri criteri di opportunità. Erode, poi, che è un re illegittimo, di fronte ai magi che gli dicono: “siamo venuti a cercare il re”, non dice sono io, o mi è nato un figlio. Perché egli sa che qualsiasi verità, qualsiasi luce di verità, svela la sua menzogna. Di conseguenza la sua preoccupazione, di continua ansietà, di continua preoccupazione, di timore di essere svelato. Questa situazione di Erode lo pone in un atteggiamento di continua aggressione, come un cane idrofobo. Chiunque gli si avvicina e gli fa ombra egli tenta di distruggerlo. Anziché, quindi, andare alla ricerca della verità, egli ogni segno, ogni lume, ogni briciolo, ogni frammento di verità deve essere distrutto. Capiamo, allora, come la figura dei magi sia espressione di chi utilizza tutte le proprie capacità, tutti i segni della creazione, la sua intelligenza, per arrivare, seguendo docilmente la forza della verità, alla verità piena  totale che è la rivelazione di Dio; dove la ragione trova il suo compimento, la sua completezza, nell’ accogliere la parola del Signore, così che la fede, in qualche modo, rappresenta il compimento della domanda di verità da parte dell’uomo. Essi, infatti, gioirono moltissimo nel rivedere la stella che si posa sopra il luogo dove abita il bambino Gesù. Essi provarono grandissima gioia, perché c’è il compimento della traiettoria del progetto di tutta la loro vita. Qual è, allora,  l’insegnamento? L’abbiamo chiesto nella preghiera, che il Signore dia la capacità di contemplare la Sua gloria. Quindi si tratta, sì, di un sapere, perché l’uomo ha bisogno di muoversi con tutta la sua realtà anche nell’incontro col Signore; nello stesso tempo questo sapere richiede da parte dell’uomo una docilità. In fondo l’esistenza cristiana è un seguire Cristo, è un mettere la propria esistenza docilmente, ubbidiente alla forza della verità. Essere docili nei confronti della verità, questa è l’esortazione che ci viene, affinché anche noi vivendo, camminando,camminando, arriviamo all’incontro col Signore così che il nostro vivere sia un continuo cammino, progressivo, una storia buona attraverso la quale noi riusciamo a vedere il volto del Signore, a contemplare la sua presenza e a gioire della sua compagnia.

 

Vangelo: Gv. 1, 1-18

Data: domenica 02.01.2000

 

   Veniamo invitati in questa domenica, dalla Chiesa ad una pacata riflessione sull’avvenimento del Natale. In tutti questi giorni la Chiesa ha sempre puntato il dito, e quindi il nostro sguardo, sul bambino affinché l’avvenimento ci riempisse l’animo di stupore. Oggi la Chiesa desidera che il nostro sguardo sia sostenuto dall’intelligenza. È come se nell’accoglienza di fede ci fosse bisogno di un aiuto intelligente. È come la fede che chiede aiuto all’intelligenza, non perché l’intelligenza produca la fede, ma perché la fede, per essere umana, ha bisogno di essere sostenuta dall’intelligenza. Quindi veniamo invitati a considerare l’avvenimento di Gesù Cristo come un reale avvenimento storico, che ha un significato e che ha delle risonanze, delle corrispondenze, nell’essere profondo di ciò che esiste. Anzitutto questo bambino, che ha cominciato ad esistere nel tempo con l’annunciazione, e poi con la nascita a Betlemme, quando ha cominciato ad esistere? Così l’evangelista Giovanni ci fa partecipi della sua meditazione, una meditazione, possiamo dire, teologica, dove è l’intelligenza che cerca di cogliere il nesso fra un avvenimento e ciò che lo precede. Qual’è il compito dello storico? È aiutare gli uomini, prima di tutto se stesso,  a cogliere il valore di un avvenimento. Perché ogni fatto ha bisogno di essere collegato con un prima e un dopo. L’evangelista Giovanni, che medita, evidentemente, anche dopo la grande esperienza di tutta la vita con Gesù cristo, arriva a questa conclusione: che il figlio di Dio non ha cominciato ad esistere sulla terra, ma il Figlio di Dio fa parte della vita intima stessa di Dio Padre. Per cui il verbo, il Figlio di Dio, era presso Dio ed è stato sempre presso Dio, vicino a Dio, egli stesso era Dio. L’inizio è molto preciso: il verbo era presso Dio e il verbo era Dio. Quello che noi vediamo è sì una fragile creatura, ma è, per così dire, il modo, il linguaggio, di cui Dio si è servito, la parola di cui Dio si è servito, per farsi conoscere agli uomini. È accaduto tante volte che Dio ha preso parte alla storia dell’umanità, il primo esempio di presenza di Dio, di convivenza di Dio, lo troviamo nel racconto, molto fascinoso, dell’origine, in cui Dio passeggia insieme all’uomo nel giardino dell’eden. Questo desiderio di Dio di essere con gli uomini, è bene che l’uomo si accorga che questa è una tendenza sempre di Dio di prendersi cura dell’uomo. Poi Dio sceglierà Abramo, sceglierà il suo popolo e lo libererà dalla schiavitù. Possiamo dire tutte le volte che gli uomini si trovano in difficoltà, Dio interviene. È un po’ come un genitore ogni volta che il suo figlio, un suo familiare, entra in difficoltà, immediatamente si sente interpellato: la cosa lo riguarda. La situazione dell’uomo riguarda Dio. Questa presenza di Dio in mezzo all’umanità educa anche l’uomo e dà all’uomo una saggezza. Per saggezza intendiamo  lo sguardo critico dell’uomo sulla propria esperienza. Tante cose ci accadono, ma ciò che è importante è che l’uomo sappia valutare ogni situazione in modo tale che l’esperienza lo introduca nell’arte di vivere. L’arte di vivere in fondo è la sapienza, è la capacità di sapere gestire la propria esistenza secondo un significato, secondo un valore fondamentale. Questo che è permanente di Dio in mezzo agli uomini, come desiderio di convivenza, si attua pienamente, questo desiderio di Dio, quando Dio non solo fa un intervento, ma pone la sua casa, la sua tenda in messo agli uomini e invita gli uomini ad entrare nella sua tenda. Per cui c’è questo movimento di Dio, che stabilisce la sua casa in mezzo agli uomini e la casa di Dio diventa anche la casa degli uomini; casa non primariamente come mura, non come luogo di divisione fra un interno ed un esterno, ma luogo in ci sono le relazioni fondamentali fra le persone: Relazioni fondamentali fra le persone sono, anche nell’esperienza umana, il rapporto uomo donna, il rapporto genitori e figli. Bene, Dio si pone in mezzo agli uomini come, in somiglianza, la posizione del papà e della madre all’interno della famiglia. Dio stabilisce una famiglia in conseguenza della fede degli uomini. Quindi la fede diventa l’accoglienza, da parte degli uomini, del senso di appartenenza a Dio, appartenenza alla famiglia di Dio, appartenenza alla realtà stessa di Dio. Per cui nella fede cristiana non c’è un convenire, come in un circolo culturale, su alcune idee, ma un convenire come un sentirsi accolti e un accogliere la presenza del Signore nella propria esistenza. Questa riflessione ci induce allora a vedere due movimenti: da una parte il movimento di attenzione di Dio nei riguardi dell’umanità, questo prendersi cura da parte di Dio della situazione umana, dall’altra parte l’uomo vivendo assieme a Dio impara ad avere uno sguardo saggio, sapiente, uno sguardo critico sulla propria esistenza. Quindi in questo vivere insieme si ha come un inveramento dell’esistenza umana. Occorre che noi ritorniamo col pensiero sull’avvenimento del Natale. Propriamente il Natale è l’inizio della esperienza che l’umanità ha della presenza di Dio. Occorre, quindi, che noi accogliamo la presenza di Cristo, anzitutto come rivelazione dell’amore di Dio nei nostri confronti, del prendersi cura di Dio nei nostri confronti. Dall’altra parte occorre che, la luce che viene su di noi, riceva i suoi connotati i suoi spessori, i suoi valori di saggezza, cosicché l’esistenza umana trovi la piena rivelazione nella luce del Figlio di Dio in mezzo agli uomini. Ciò che dobbiamo chiedere, ciò che dobbiamo desiderare è che l’incontro avvenga, e che la libertà di Dio che si è mosso verso gli uomini incontri la nostra libertà. Così che la nostra libertà abbia tutta la sua agilità di movimento nell’infinita libertà di Dio. Perché solo l’infinita libertà di Dio è capace di accogliere pienamente la incerta libertà dell’uomo.

 

Vangelo: Lc 2.16-21

Data: sabato 01.01.2000

 

  Quando ci sono delle scadenze temporali, è nell’urgenza stessa dell’intelligenza dell’uomo di cercare il nesso; il collegamento. La ragione è la capacità dell’uomo di stabilire dei rapporti, dei nessi, dei collegamenti fra una realtà e l’altra. Allo scadere di tempi, l’uomo sente di dovere in qualche modo rispondere di ciò che è accaduto e di ciò che accadrà. Anche se la risposta sull’accaduto è largamente imprecisa. Per quanto poi riguarda ciò che accadrà, il punto interrogativo fa rimanere l’uomo molto, molto sospeso. Si crea quindi uno stato d’animo con una certa ansia nel cuore dell’uomo e l’uomo cerca di liberarsene in qualche modo. Tutte le manifestazioni clamorose cui abbiamo assistito questa notte, in fondo, corrispondevano ad un bisogno dell’uomo di trovare un’espressione, possibilmente rumorosa, che proiettasse all’esterno il disagio che egli viveva all’interno della sua persona. Il nesso dei tempi, dei momenti della vita, il collegamento, è la tipica domanda a cui intende rispondere il fatto religioso. Il fatto religioso primariamente, sorge come urgenza della ragione dell’uomo per trovare il collegamento dei tempi della vita. Pone anche, quindi, la domanda sul significato dei giorni, degli anni e anche il significato della storia. Capiamo allora il motivo per cui la Chiesa abbia posto, con grande energia, con grande forza, all’inizio dell’anno, anzitutto la lettura della benedizione. Questa benedizione è conosciuta presso il popolo cristiano come benedizione di San Francesco, perché egli era ad essa molto affezionato. Il significato della benedizione non è tanto un dire, come dice la parola, ma il rendere presente il Signore nella vita della persona. Quindi la benedizione primariamente e qui l’indicazione: “voi sacerdoti benedirete così”, dove è il Signore stesso che dice come si deve fare. Mi era sfuggito questo aspetto, anche perché sia delle benedizioni ne riceviamo tante, sia ne do tante e per un certo tempo c’è come un’usura delle parole. Invece il Signore dice: “quando benedici dì così”. Nella benedizione c’è un rendere presente il Signore con la potenza e la forza che risveglia l’esistenza, il tempo dell’uomo, da generare stupore nella vita dell’uomo, perché lo stupore è l’accorgersi di una presenza che sovrasta, supera immensamente ciò che noi normalmente ci aspetteremmo. È per questo che la Chiesa pone subito all’inizio del tempo, per rispondere all’uomo che si interroga sul tempo la benedizione del Signore. “il Signore è con te, ed è con te perché Lui l’ha detto e ti accompagna nel tempo”. Per quanto poi riguarda l’atteggiamento da avere ci presenta il comportamento di Maria: “Maria conservava queste cose meditandole nel suo cuore”. Che cosa ricordiamo noi? Notate: noi ricordiamo una quantità immensa di cose e dimentichiamo una quantità immensa di cose. Solo che se noi ci chiediamo: “ ma che cosa ricordiamo” ci accorgiamo che abbiamo una quantità immensa di impressioni, ma di fatto, le importanti sono le cose che solitamente dimentichiamo. È curioso, abbiamo la mente, la memoria piena di cose, di notizie e nello stesso tempo siamo smemorati rispetto alla tonalità di coscienza di noi stessi. Perché non sono molti i momenti in cui riusciamo ad avere la lucidità come coscienza di noi stessi, la coscienza di essere presenti a noi stessi. Questo ci indica come sia un’urgenza per noi riuscire a stabilire unità fra tutte le tessere di esperienza da costituire un mosaico. Maria quindi, poiché serba nel suo cuore queste cose, vuol dire che queste cose, le azioni compiute da Dio, sono all’origine del suo modo di pensare, del suo modo di agire, perché il cuore è il luogo in cui affondano le radici sia i pensieri che le azioni. Ora l’invito che ci viene è questo: porre il Signore al centro come unità di misura, criterio di lettura della vita. È l’unico modo per riportare all’unità la nostra esistenza, perché, se voi notate, c’è una dispersione spaventosa sulla verità del nostro io. Anzi il nostro io tende ad essere come frammentato in seguito ad una esplosione. Occorre invece che rapportiamo il tutto ad una unità di progetto. Ma non un progetto fatto da noi, ad un progetto che noi accogliamo come conseguenza di un avvenimento che ha generato in noi lo stupore. Se volete, il fatto religioso come momento di unità progettuale di tutta la nostra vita. il momento religioso come incontro col Signore nel quale stabiliamo una coerente visione delle cose. All’inizio, quindi, dell’anno ci viene detto che è possibile affrontare il tempo e porre una certa progettualità nel tempo soltanto se si ha un punto ben fermo. Il punto fermo l’ha preso il Signore venendo nella nostra condizione umana. Gesù salendo al cielo non ha abbandonato la condizione umana, ma la condizione umana è permanente presso Dio. La Chiesa quindi in questo modo ci viene a dire che anche se noi abbiamo dimenticato una quantità immensa di cose nell’anno trascorso il tutto però, se vissuto secondo il cuore buono, secondo il desiderio del bene viene ad essere coagulato da Dio stesso; il quale ci benedice, il quale porta unità all’interno della nostra smemoratezza, all’interno di quel cammino della vita dove noi tante volte dimentichiamo la verità di noi stessi. La Chiesa, quindi da una parte viene a confermarci, attraverso la benedizione, il permanere nella nostra esistenza, nel nostro tempo dell’azione efficace di Dio, nello stesso tempo indicandoci la figura di Maria come prototipo di vera umanità, di piena umanità, ci viene indicato come il nostro atteggiamento possa rendere efficace l’azione del Signore, perché il Signore è sempre in azione. Il problema è che noi siamo poco tempo a “casa”. Il problema è che tante volte il Signore è a “casa nostra” ma noi siamo altrove. Allora occorre che chiediamo al Signore stesso la capacità di essere presenti a noi stessi in modo tale che la luce del suo volto illumini profondamente la verità del nostro volto.

 

Vangelo: Luca 2, 22-40

Data: Domenica 26.12.1999

 

 La Chiesa in questa prima domenica dopo il Natale ci invita a guardare la famiglia di Gesù. Normalmente noi tendiamo ad isolare una persona. Ma una persona staccata dal contesto, in fondo, la riempiamo di attributi, ma praticamente la vita non la vediamo più scorrere. Perché la vita si manifesta nel tessuto vitale delle relazioni delle persone. Così noi veniamo invitati, oggi, a vedere questa costellazione, una costellazione di persone, dove ciascuno rimane con la sua identità. Anzi c’è un connotato che è comune a tutte queste persone. C’è una parola che viene ripetuta, ed è la parola “Legge”. A noi questa parola suona dura, quando pensiamo alla legge pensiamo al tribunale, avvocati, carabinieri, la guardia di finanza , la polizia stradale. Questa parola presso il popolo ebreo indicava il suggerimento che si può dare ad una persone perché non sbagli la strada. Aveva più il connotato di un insegnamento o se volete di un’istruzione per l’uso. Essa aveva il connotato di aiuto, affinché la vita si svolga secondo l’urgenza della vera umanità, dove la volontà di Dio è che l’uomo realizzi la propria vita. Notiamo la ripetizione di questa parola: “secondo la legge”,  perché l’orizzonte in cui si muovono Maria e Giuseppe è quello dell’ascolto della parola del Signore. L’evangelista Luca è particolarmente attento a seguire i diversi momenti decisivi della vita della Madonna; per cui abbiamo l’Annunciazione. Benché la Madonna avesse progettato altrimenti la propria esistenza, avendo ricevuto l’annuncio del progetto di Dio sulla sua vita, si fa docile nei confronti della parola del Signore. L’evangelista Matteo invece, che ha la preoccupazione di indicare che Gesù è della famiglia di Davide, segue la situazione di Giuseppe e pone in luce come il cambiamento di progetto della propria vita, come ubbidienza della fede, sia stato attraversato da Giuseppe attraverso una lunga riflessione e poi in modo decisivo è stato l’angelo che gli ha detto quello che doveva fare. Così abbiamo queste due persone, sia Maria che Giuseppe, che obbediscono alla parola del Signore, perché è la parola del Signore che rende vera la loro esistenza; dove, nell’orizzonte della fede, l’uomo considera se stesso primariamente uditore della parola vera. Noi nella nostra mentalità siamo portati a dare credito alla nostra intelligenza, alla nostra ragione, invece in un orizzonte di fede ciò che è primario, ciò che è verità, non è quello che uno pensa o istintivamente avverte, ma è la parola del Signore che illumina e rafforza il cuore e l’intelligenza della persona, affinché il cammino di vita della persona sia vero. Abbiamo allora, sia Maria che Giuseppe e possiamo dire anche Gesù, che è religioso, religioso nel senso di chi sente la presenza di Dio o sente Dio in azione nel proprio vivere. Dio c’è perché sento o perché Dio è realmente in azione nella mia vita quotidiana? Dio c’è per me, per me non come punto di vista, c’è per me come uno che spende le proprie energie, il proprio affetto, il prendersi cura nei confronti della mia persona. Così abbiamo tre persone religiose, Maria, Giuseppe e Gesù. Com’è il rapporto fra di loro? Il rapporto fra di loro è quello di chi si prende cura. Inizialmente qui abbiamo Maria e Giuseppe, il bambino è ancora troppo piccolo, però Maria è preoccupata perché il bambino realizzi lo scopo della vita. Così Giuseppe è preoccupato che Maria realizzi lo scopo della vita, e Maria è preoccupata che Giuseppe raggiunga lo scopo della vita. L’attenzione dell’uno e anche l’affettività nell’uno nei confronti dell’altro si manifesta come prendersi cura che il significato della vita, la verità della vita, si realizzi nella persona amata. Dove quindi l’attenzione di Maria è primariamente verso Giuseppe e verso il bambino, l’attenzione di Giuseppe si ha su Maria e sul bambino. Questa attenzione quale orizzonte copre? Il bambino cresceva e si fortificava. Potremmo avere qui l’orizzonte prettamente umano della salute fisica e quindi anche della salute affettiva. Pieno di sapienza: la sapienza è l’arte di vivere riconoscendo ciò che è vero, ciò che è giusto, da ciò che invece non corrisponde all’esercizio vero della libertà. C’è l’educazione alla libertà, come educazione a seguire ciò che è giusto, ciò che è vero. Questo è vissuto all’interno di uno spazio Dio agisce, dove la grazia di Dio era sopra di loro. La grazia di Dio, in fondo, è l’esserci presente, faccia a faccia nel cammino di queste persone. Quindi la famiglia propriamente è costituita da persone che seguono, per così dire, il destino della loro vita e ciascuno si prende cura affinché l’altro realizzi ciò per cui esiste in questo mondo, ciò per cui lo fa vivere, ciò per cui se venisse meno non sarebbe più se stesso: in fondo ciò che vale di più, ciò che ama di più. Questo è il primo connotato, l’altro connotato è che qualsiasi forma di attenzione nei confronti dell’altro è un momento di educazione all’amore. Perché l’amore non consiste in un vago sentire romantico decadente, ma un prendersi cura dell’essere della persona, della vita della persona. Ecco che allora crescere nell’amore significa crescere nella vera umanità, crescere prendendosi cura di tutto ciò che fisicamente serve ad una persona. Per cui qualsiasi cosa si faccia come “prendersi cura” di una persona è nobilissimo, è il meglio che si possa fare. Talora noi, con la nostra mentalità astratta, pensiamo che le cose sublimi siano quelle dei pensieri  sublimi. Invece il gesto che serve a vivere, quello, è il massimo. Talora abbiamo l’impressione al termine della nostra giornata di non avere combinato un granché, niente di rilevante, però se dopo consideriamo che dal  mattino alla sera la nostra presenza, il nostro muoversi, il nostro agire era sempre in riferimento a delle altre persone, come è in una vita familiare, quello che si è fatto va bene così. Occorre quindi avere una serenità nei confronti della nostra esistenza, altrimenti se noi pensiamo che avremmo potuto, astrattamente, fare qualcosa di più, capite che diventa un martirio che è intollerabile. Invece quando una persona ha fatto quello che poteva, e lo ha fatto, ha cercato di farlo anche bene: va bene così, non c’è da recriminare su niente e su nessuno. Tenete presente che Dio stesso, Gesù Cristo, su trentatre anni, trenta li ha vissuti così. E quindi è una vita degna di Dio, una vita quindi che non si può pretendere, non si può esigere che sia di più, perché se una vita è degna di Dio, lo capite che è degna anche per noi, è adeguata a noi. Notate allora come, oggi, la Chiesa desidera che noi abbiamo uno sguardo più luminoso, più positivo, più profondo, sull’insieme delle cose che già facciamo, ma delle quali ci sfugge il significato, nelle quali ci sfugge la profondità e anche la consistenza come edificazione del volto buono della persona. L’importante, però, è che noi non ci fermiamo solo al primo punto: “Gesù cresceva e si fortificava”. Perché le urgenze fisiche sono molto clamorose, sono molto evidenti, occorre che noi pensiamo anche che Gesù era pieno di sapienza. Occorre aiutarci insieme ad entrare nel mondo sapendo discernere, distinguere, ciò che ne vale la pena e ciò che invece deve essere lasciato da parte e vivere insieme sotto lo sguardo del nostro Signore. Voglia il Signore, particolarmente da questi giorni in poi, esserci di sostegno e di aiuto, così che il nostro sguardo luminoso abbia a rendere più luminosa la nostra casa, dove quando entriamo abbiamo la percezione di vivere in un luogo sacro, il luogo di una presenza, perché il Signore ci accompagna ed edifica,attraverso il nostro “prendersi cura”, il volto, la santità della nostra esistenza.

 

Vangelo: Luca 2,1-14

Data: Natale 1999.

 

 Auguro a tutti voi un bel Natale. Questo è ciò che immediatamente viene spontaneo. Avvolti come da un campo di presenza, che induce dal cuore buono, perché chiedere al Signore che sia il bene attorno a noi, è indice del cuore buono. Perché è il cuore buono che desidera che il bene si diffonda e si espanda da ogni parte. Ciò che noi celebriamo, e questa è la prima preoccupazione di Luca, è un avvenimento realmente accaduto. Ciò che noi celebriamo in questa giornata è un fatto che: è accaduto in un luogo, c’erano delle persone. Dove usciamo, come dire, dal mondo che comincia sempre “c’era una volta”, ma non si sa né dove né quando. Invece ciò che oggi celebriamo, si sa il dove, il quando, chi c’era, perché c’era e così via. Ma affinché noi non siamo distratti dall’insieme dei molti personaggi, che si tratti di Cesare Augusto, dei movimenti che ci sono, gli angeli del cielo, l’evangelista Luca ripete per tre volte un motivo: “un bambino avvolto in fasce, nella mangiatoia”. Ce lo ripete tre volte, per dire:”non lasciarti distrarre da tante cose o nomi che suonano forte, perché il luogo dove fissare l’attenzione è quel bambino lì”.L’insistenza di Luca perché noi guardiamo al bambino è che, primariamente, il vedere un bambino ci porta subito in un senso di mistero, potremmo dire di gioia e nello stesso tempo di libertà. Perché di fronte ad un bambino non c’è motivo che uno metta in azione tutte quelle forme difensive, di censura, perché “non si sa mai”, come succede spontaneamente di fronte agli adulti. Quindi è un invito a lasciare cadere quelle forme di resistenza e lasciarci investire da questa presenza, dallo stupore del mistero della vita che si sprigiona dalla nascita di un bambino. Quindi è indicazione affinché noi liberiamo il nostro cuore da ogni timore. Il motivo è questo: quel bambino è si come gli altri bambini, ma è molto di più, perché è figlio di Dio, è figlio di Colui il cui nome gli uomini dicono con estremo riguardo e anche con una certa paura. Se quel bambino lì è il figlio di Dio, vuol dire che Dio ha la connotazione di padre. Seguite la rivelazione che viene. Perché se Dio ha un figlio e il figlio si presenta a noi così disarmato, questo indica come Dio abbia donato. Come dirà Gesù stesso:”Dio ha tanto amato gli uomini da dare il suo figlio”, notate. Questo per noi è una rivelazione che squarcia completamente il timore dell’uomo sul destino della vita. Il mistero buono della vita si esprime a noi, nella sua completezza, nella figura di un bambino. Questo ci indica come l’atteggiamento, la sensibilità, il modo di rapportarsi, la tonalità affettiva di Dio nei nostri confronti, è quello di chi ha una grande esperienza, ha la pienezza della paternità e della maternità. Tutti coloro che hanno l’esperienza della paternità e della maternità sanno che cosa significhi questo avvenimento che trasforma tutta la sensibilità della vita. Perché chi è padre e madre ha un modo diverso non solo di guardare coloro che fan parte della famiglia, ma anche tutte le altre persone. Perché chi è padre e madre ha uno sguardo di chi, immediatamente, si prende cura delle persone, di chi si sente investito come di un’urgenza di esserci presente a chi incontra e a chi è in stato di bisogno. Ora se questa connotazione di una paternità piena è propria del nostro Dio, capite come il cuore dell’uomo non abbia più paura, non possa più avere paura, di questa realtà misteriosa che è Dio. Perché Dio stesso si rapporta all’uomo con la tonalità di chi è padre. Questa rivelazione occorre averla presente perché da secoli, nella nostra cultura, almeno da tre secoli, l’uomo ha avuto paura di Dio. Egli ha avuto paura per l’integrità della sua intelligenza, della sua libertà. Ora, se il modello attraverso il quale dobbiamo guardare Dio è quello della paternità e maternità, notiamo che gioia grande è quella dei genitori, che il figlio cresca, che sia introdotto nella conoscenza della realtà, del mondo. Tanto più è gioioso un genitore quanto più lo introduce all’interno del mondo reale, e gli indica il diverso valore delle cose. Così anche il vedere che via, via, che la persona cresce, si assume la responsabilità dei propri gesti e c’è l’esercizio della libertà, il discernimento, la docilità nei confronti del bene, è motivo di gioia da parte dei genitori. Vedete allora come attraverso questo bambino, che è figlio, venga indotto in noi una correzione fondamentale rispetto a ciò che la trasmissione della nostra cultura avviene ad investirci. Invece l’accettazione di Dio come padre rappresenta lo spazio adeguato in cui, ciascuno di noi, non ha più paura, ma viene affascinato dallo stupore e lo stupore genera serenità nei confronti dell’esistenza. Questo occorre che noi l’abbiamo presente, considerando, anche, che stiamo già vivendo le celebrazioni del millennio. Il senso del tempo che non sia una partecipazione al tempo stesso di Dio, fa vedere noi stessi continuamente in perdita. Perché il tempo ha una sola direzione e si muove e passa. Nella nostra esistenza c’è la presenza di Dio che è continuo presente. L’eternità non è un tempo lungo. L’eternità è la densità del presente dove non è che vada via l’esperienza o vada via la vita, ma il tutto viene raccolto in una unità significativa, in una unità che costituisca una vera storia, perché ovunque c’è l’azione della libertà e della responsabilità il tempo si coagula per orientarsi ad un significato. Chiediamo al Signore che ci dia la capacità di contemplare il bambino in tutto lo spessore e tutta la valenza che ha per la nostra esistenza. In modo tale che, la realtà di questo bambino, diventi l’inizio di una trama di pensieri, che permetta di mettere a fuoco il nostro volto, il volto del tempo nel quale viviamo e così questo bambino, realmente, induca in noi, nella sorgente della nostra esistenza, una gioia, una letizia. Perché è stato rischiarato il mistero dell’origine e il mistero del destino della vita. Chiediamo al Signore che ci dia questa capacità di vivere il tempo come tempo che non tramonta, non finisce, tempo rappreso in un presente carico di valore e di significato. Chiediamo al Signore che investa il nostro cuore, così che il nostro tempo abbia i connotati del Suo tempo, la nostra natura e condizione umana abbia i connotati della sua natura e della sua condizione umana. In modo tale che la partecipazione alla sua paternità, alla sua maternità, sia per noi motivo di letizia, in quanto ché, già nella profondità della nostra esistenza sta la sua presenza e il connotato fondamentale della sua vita.


 

Vangelo: Lc 1.26-38

Data: Domenica 19.12.1999:

   Stiamo avvicinandoci al Santo Natale e la Chiesa desidera che noi entriamo in questo tempo orientato verso uno scopo, perché il Natale primariamente è la irruzione di Dio nel tempo dell’uomo. Il tempo dell’uomo caratterizza la possibilità di svolgere un’azione, una storia, perché è la libertà dell’uomo che coagulando, dando fisionomia al tempo gli imprime la connotazione di un significato. Senza libertà praticamente il tempo non porta da nessuna parte, ma la libertà dell’uomo, dà una fisionomia una configurazione e gli dà un significato; solo che nelle mani dell’uomo, nella responsabilità dell’uomo, il tempo resta coagulato per un momento poi il passato lo disperde. L’immissione di Dio nel tempo dell’uomo con i connotati propri di Dio imprime al tempo dell’uomo un orientamento una connotazione del tutto particolare, per cui tutto il tempo dell’uomo riceve dalla presenza di Dio un significato. Questo è molto importante averlo presente perché sia vero lo sguardo di una madre sul proprio bambino che tiene in braccio. Certo l’affetto si distende dal presente verso il futuro per un tempo indeterminato, ma le titubanze i timori della vita, qualora ci pensiamo sopra, sono veramente grandi e grande è l’incertezza del tempo. Noi sappiamo benissimo che, per quanto da adulti possiamo fare, il destino delle persone giovani ci sfugge. Ora la immissione nel tempo dell’uomo della connotazione del tempo di Dio permette ad ogni persona, ad ogni padre, ad ogni madre di guardare positivamente al suo figlio, perché, dal momento che Dio è entrato nella storia degli uomini, il tempo ha subito come una torsione, un orientamento, una immissione di unità verso un significato. Tutto il tempo dell’uomo è orientato ad uno scopo, ad un fine, ad una meta. L’uomo quindi dalla venuta di Gesù Cristo ha accolto un orientamento per cui esiste una storia all’interno dell’umanità. Il Vangelo di oggi e l’insieme delle letture di oggi orientano la nostra attenzione su questa storia che Dio costruisce all’interno della storia grande dell’umanità. Abbiamo nella prima lettura Davide che è stato condotto per tutta la sua vita da Dio e, da semplice pastore è diventato re. C’è un misto di riconoscenza e di volontà di potenza nel progetto di Davide di costruire un tempio al Signore. Era consuetudine, presso gli imperatori orientali, di costruire accanto alla dimora del re il tempio: il re si prendeva cura del tempio, ma il tempio a sua volta legittimava l’autorità del re. La presenza di Dio, la presenza del tempio, rendeva in qualche modo sacra la figura del re. Indubbiamente Davide è sincero nell’esprimere il progetto, però era il gesto in se stesso che aveva un’ambiguità e il Signore gli dice: “No io ti ho condotto nella vita fino adesso e continuerò a guidarti: non sarai tu che costruirai una casa a me, ma Io provvederò affinché la tua casa, la tua discendenza, la tua famiglia di generazione in generazione arrivi al compimento e nella linea della tua generazione verrà il Salvatore”. È per questo che allora noi troviamo nel Vangelo una vergine sposata ad un uomo della casa di Davide. Il centro d’attenzione è Maria da cui nascerà il bambino, ma giuridicamente la paternità è sulla linea di Davide. Propriamente Gesù non è il risultato di una generazione umana, ma è il Figlio di Dio che entra nel grembo di Maria. Giuridicamente Gesù è figlio di Giuseppe e infatti viene poi detto che il figlio di Maria porterà a compimento e quindi realizza il regno di Davide. Perché questo richiamo? Perché viene messa in luce la fedeltà di Dio: ciò che Dio ha stabilito come storia nel tempo prosegue con assoluta fedeltà. Ciò che il Signore ha progettato lo realizza come volontà di orientare l’esistenza umana, la storia degli uomini, secondo un progetto buono che egli ha definito. Quindi primariamente veniamo richiamati a considerare che ciò che il Signore ha pensato, ha voluto, non è soggetto all’usura del tempo come è la nostra memoria. Tutte le nostre capacità subiscono come l’insulto del tempo, per cui tendiamo continuamente ad essere in qualche modo costruiti, ma anche distrutti dal tempo. La condizione umana è quella di chi subisce continuamente i segni, l’erosione del tempo: il tempo porta, il tempo prende. Ora invece il nostro Dio si connota all’interno della storia umana come Colui che continuamente porta nella positività. È per questo che nella esistenza cristiana, facendo memoria di ciò che è accaduto, ci disponiamo affinché riaccada in noi, per la potenza di Dio, ciò che Dio ha compiuto. La celebrazione cristiana del Natale non è in qualche modo la rappresentazione di ciò che è accaduto, ma il rendere presente ciò che è accaduto. Questo rendere presente ciò che è accaduto ci permette di essere, potremmo dire, persone che vengono coinvolte direttamente, perché il tempo dell’uomo ha subito la presenza del tempo di Dio-eternità che è un continuo presente. L’eternità non è un tempo allungato, ma è un adesso continuato è un momento germinativo, generativo e quindi di estrema novità. Prendete l’espressione: per il secondo millennio del cristianesimo c’è una ripresa che è sorgente di una nuova vita cristiana. Notate, mentre da una parte affermiamo una densità di tempo, duemila anni non sono pochi, dall’altra parte consideriamo che questo tempo non grava sul presente, ma è un motivo affinché nel presente noi riaccogliamo lo Spirito originario. Il tempo trascorso, anziché essere di peso ci è motivo di fondata speranza perché il tempo viene riassorbito dalla presenza di Dio. Il Vangelo induce la nostra persona ad avere uno sguardo di positività, perché è positiva l’oggettività del tempo per questa presenza di Dio. Il tempo deve essere accolto da noi come una realtà che ha in se stessa una potenza di salvezza e tutte le dimensioni dell’uomo sono dimensioni che sono investite accolte dalla presenza di Dio. Tutta la vita umana è accolta dalla presenza di Dio. Per quanto sublime sia il pensiero che noi abbiamo di Dio dobbiamo considerare che è l’amore di Dio che lo rende capace anche della realtà e degli aspetti più umili dell’esistenza umana. Qualcosa accade anche a noi. Ci sono delle cose o dei servizi che noi non faremmo, però se si tratta della persona che amiamo noi lo facciamo volentieri. Nella misura in cui noi amiamo siamo disposti a fare ciò che spontaneamente non faremmo. La venuta di Dio in mezzo agli uomini e il suo permanere in mezzo agli uomini e la sua fedeltà nel tempo, è espressione della sua bontà e della sua misericordia. Specialmente in questi giorni occorre che noi sappiamo accogliere da Dio, non l’aspetto emozionale del tempo, ma il suo aspetto come storia buona, come presenza germinativa di vita. Accogliamo questa presenza del Signore nella sua umiltà come espressione dell’amore che Egli ha nei nostri confronti; per cui essendo grande l’amore non ha paura di qualsiasi situazione in cui ci troviamo, ma Egli viene a prenderci, a visitarci, a stare con noi in qualsiasi luogo noi veniamo a trovarci.

 

Vangelo : Matteo 25,31-46

Data: Domenica 21.11.1999

 

 Ogni volta che si legge o si ascolta questo brano del vangelo immediatamente la nostra memoria ci presenta il grande Giudizio Universale di Michelangelo, dove c’è la persona  di Cristo che, tremendo, divide e condanna. Non è su questa linea che deve svolgersi la nostra riflessione. Innanzitutto dobbiamo pensare che ciò che Gesù dice ce lo dice per indicarci il punto di vista corretto sulla nostra esistenza nel presente. Quando accade qualcosa e ci viene narrata, la domanda che ci sorge spontanea è: come va poi a finire? Il “come va poi a finire?” ci dà il punto di vista per poter valutare i diversi passaggi, perché, in fondo, il risultato è ciò che fin dall’inizio determina la successione dei passaggi, la correttezza dei passaggi. Gesù Cristo quindi non intende con questo brano metterci in una situazione di   angoscia e di ansietà, bensì vuole darci il punto di vista corretto e giusto per valutare in modo permanente e valido, oggi come ieri e domani e così via. Fino alla fine del mondo questo criterio sarà valido sempre. Infatti la condizione umana ci pone molto facilmente in una variabilità di   punti di vista  e quindi di giudizio e quindi di valutazione. Come è diverso il metro di valutazione che noi abbiamo verso una persona estranea e verso cui nutriamo rancore dalla valutazione di una persona  che ci è amica e verso cui nutriamo affetto: cambia molto. Considerando poi anche il tempo presente, dove sono in atto processi di revisione storica e quindi cambiamenti di punti di vista in conseguenza degli avvenimenti, viene da considerare come colui che ieri era nemico oggi è diventato amico e probabilmente tornerà nemico domani. Questa precarietà del giudizio umano è connessa con la condizione dell’uomo, perché spesso il giudizio umano erra. Gesù invece ci dice che c’è qualcosa che vale per sempre, e ciò che vale per sempre è il cuore buono, il cuore dell’uomo che è permeabile alla domanda di chi è in   situazione di bisogno, di chi ci è accanto. In un certo senso ci viene indicato come si comporta il nostro Dio: il nostro Dio fa piovere sui buoni e sui cattivi ma il suo atteggiamento è quello che va in  aiuto di chiunque abbia bisogno. Il Cristiano continua ad essere nel mondo colui che, per così dire, presta gli occhi, le orecchie, le mani, le gambe all’azione del suo Dio. Il Signore desidera che tramite il nostro modo di vivere e tramite le nostre capacità si irradi nel mondo il suo Regno. Potremo anche dire che il senso dell’esistenza del cristiano nel mondo è che la nuova ed eterna Alleanza si manifesti in ogni situazione, perché la nuova ed eterna Alleanza dimostri che realmente Dio ci ha visitati e che Lui è realmente presente nella storia dell’uomo e ci raggiunge attraverso la  “permeabilità affettiva “ delle persone di cuore. Cristo quindi viene ad indicarci un criterio  con cui noi possiamo valutare se il tempo trascorso, ad esempio ieri, è stato un tempo buono o perduto, o un tempo in cui c’è stata la assoluta estraneità del Signore dal nostro vivere. Infatti nella misura in cui ci lasciamo permeare dalla richiesta di aiuto di chi ci è accanto, noi diventiamo luogo della presenza del Signore. Il Signore occupa la nostra intelligenza, la nostra memoria, la totalità affettiva della nostra persona ed anche il nostro corpo ogni volta che la Sua azione misericordiosa si manifesta nel mondo tramite noi ed il nostro operare. Nella misura in cui noi accettiamo  questo passaggio, diventiamo proprietà di Dio. Questo è il significato profondo  di ciò che abbiamo appreso nei sacramenti del Battesimo e della Cresima, indicando che chiunque creda in Gesù Cristo  é proprietà ed appartiene a Gesù Cristo. Ciascuno di noi quindi non è allo sbando, non è una autonomia  insignificante, ma la nostra esistenza appartiene a Gesù Cristo e ciascuno di noi diventa il luogo della rivelazione di Gesù Cristo in mezzo agli uomini. Questa regola è valida per tutti gli uomini, infatti nel vangelo le persone che hanno fatto il bene gli chiedono: ma quando noi abbiamo incontrato Te? Questo significa che la permeabilità del cuore alle domande ed ai bisogni   delle persone che si sono affidate a noi  nel corso della vita, è parte integrante del cammino di umanizzazione. Viceversa la non disponibilità nei confronti del prossimo implica una menomazione, un vuoto nella propria umanità. Gesù ci indica che, indipendentemente dal motivo, l’agire correttamente inserisce l’uomo nell’Alleanza. Che sia poi l’Alleanza della creazione o di Gesù ha poca importanza: il fatto stesso di essere stati creati da Dio ha posto in ciascuno di noi la sensibilità e l’intelligenza per vivere insieme al prossimo ed aiutare l’un l’altro a vivere. Nei diversi frangenti il Signore ci dà la capacità di poter scegliere la via della vita o la via della morte: il momento drammatico non è al termine della vita, ma è l’esistenza stessa che è drammatica, perché ogni volta che scegliamo o scegliamo il percorso della vita o il percorso della morte. Ogni volta che agiamo responsabilmente, in quel momento si opera il giudizio dell’esistenza: è l’emergere della bontà all’interno della nostra vita. Anche al termine della nostra vita non ci sarà nessuno che ci dirà come siamo stati, ma  ciascuno di noi avvertirà pienamente la verità della propria persona o l’errore della propria persona. Affiorerà  alla piena coscienza   “l’esistere” che noi spesso tendiamo a nascondere. Occorre, quindi, che noi chiediamo al Signore due cose fondamentalmente: che ci dia la permeabilità alla domanda di bisogno del prossimo, in modo che noi ci rendiamo realmente presenti. Questo perché troppo spesso ci diamo alla latitanza: non ci siamo per nessuno! Questo non esserci significa che nella nostra esistenza c’è una mancanza, un vuoto: tu non c’eri! Chiediamo quindi al Signore che ci doni la disponibilità  e ci infonda la Sua capacità di amare, così che la tenerezza che Dio ha verso di noi entri a far parte anche della nostra vita Saremo così capaci di accogliere il prossimo e di stargli vicino, compagni della vita. Questa fraternità che Cristo vuole sia nel mondo, occorre che sia anche in noi. Che sia anche in noi ciò che è stato S. Francesco, cioè il fratello universale, il fratello di ogni uomo, perchè Francesco avvertiva che Dio è presente in ogni uomo. Dio è tutto in tutti e quindi ogni uomo merita
il rispetto in quanto presenza di Dio.